Tra Basilicata e Calabria sono state denunciate diciotto persone nell’ambito di un’operazione della Guardia di finanza di Montegiordano contro il caporalato e l’immigrazione clandestina. I finanzieri durante un controllo nell’area urbana di Roseto Capo Spulico hanno trovato cinquantasei migranti di varie nazionalità (pakistani, nigeriani, bulgari, romeni) stipati in sette furgoni e alcuni anche nel portabagagli, in condizioni degradanti, senza permesso di soggiorno e senza regolare contratto di lavoro.
Cantava Rino Gaetano in una sua famosa canzone: «Mio fratello è figlio unico, sfruttato, represso, calpestato, odiato».
La piaga sociale dello sfruttamento e l’emersione della figura del Kapò permettono di analizzare la situazione sotto molteplici prospettive. Le più importanti riguardano: il lato del lavoro e dello sfruttamento e riduzione in schiavitù e quello legato al potere e al ruolo del Kapò.
Bisogna fare una premessa doverosa: il potere (qualsiasi sia la sua natura) agisce sui corpi e, di conseguenza, il corpo diviene la palestra su cui il potere si esercita e sperimenta.
Il mondo del lavoro non è certo esente da questo ragionamento. Vi è un’espansione vorticosa di zone grigie, in cui il lavoro sommerso, sottopagato, sfruttato è il motore trainante di tutta l’economia.
In questo contesto la riduzione in schiavitù diviene prassi nel rapporto tra lavoratore e datore o, usando la terminologia freiriana che appare appropriata, tra oppresso e oppressore. Vi è una sorta di disumanizzazione del lavoratore a cui viene tolto non solo il nome (vengono considerati, infatti, alla stregua di numeri), ma anche la dignità e il fondamento stesso del sé. Reputati oggetti o meglio merce da cui trarre profitto, assistiamo all’emergere di un capitalismo dei corpi che trova negli ultimi dannati della terra il prodotto di mercato più conveniente e utile da inserire negli ingranaggi senza scampo della produzione. Uomini e donne abusati, sottomessi, sottopagati (nella migliore delle situazioni), derubati, violati, lasciati morire di stenti o sotto un sole cocente.
Il caporalato sta divenendo sempre più sistema economico riconosciuto, nonostante poche e blande azioni legislative volte al contrasto e all’emersione del lavoro illegale. Un sistema che trova la sua evoluzione naturale in quello che storici e sociologi appellano come “sistema capitalistico tardo-clientelare” e che troppe volte crea legami forti anche con la criminalità organizzata. Un sistema redditizio e che funziona tramite una strutturazione rigida di compiti e di “cariche” da ricoprire. Una commistione di poteri alimenta la schematizzazione dell’apparato di produzione.
Figura emblematica del rapporto lavorativo basato sullo sfruttamento è il Kapò. Il suo ruolo è quello di “procacciare” personale, di trasporto della merce umana e soprattutto di controllo e di repressione di qualsiasi possibile richiesta o “alzata di testa”. Egli ha le fattezze dell’uomo quotidiano, ligio al proprio lavoro; ma esercita un potere incontrovertibile sul corpo del lavorante, di cui può disporre a proprio piacimento. Al Kapò il compito del terrore e di ridurre in una condizione di sudditanza e di prostrazione fisica e psicologica i nuovi schiavi, gli oppressi dell’oggi. Si instaura un gioco di forze che vede il predominio di uno e lo schiacciamento e l’annichilimento dei molti, sotto la pressa della speculazione sui corpi.
E vengono in mente le parole di Primo Levi in “Se questo è un uomo” e volte al presente potremmo affermare: considerate se questi sono uomini e donne che lavorano nel fango, che si umiliano e vengono sfruttati, la dignità calpestata, i diritti negati; che ancora muoiono per un si o per un no in mare come per il troppo lavoro, assassinati dall’indifferenza dei molti e dal profitto dei pochi.
Chantal Castiglione