di Antonio Vulcano
Sono andato in visita al cimitero del mio paese; un cimitero particolare perché qui sono sepolte le parole: quelle non più utilizzate nella quotidianità delle persone. Lungo il viale che porta dall’ingresso alla cappella, le ho viste tutte, le parole: quelle con la “f”, con “g”, con “J” … tumuli, tutti allineati e sparsi a caso. Ognuno raccontava la sua storia, in poche righe: alcune, di vita breve come i neologismi importati dalla Francia, Germania, Svizzera dai tanti emigrati ritornati nel crepuscolo della loro vita che dovevano riabituarsi a suoni di parole più dolci e meno gutturali; altre vissute tanti anni e, fatto strano, la maggior parte decedute negli anni 60/70/80, gli anni in cui la tecnologia si è sostituita al dialogo tra le persone. Quante volte ho pensato e parlato con le parole che, ora, mute, non esprimono più il suono armonioso delle sillabe.
Ecco la “f” … “furise” era quello che volevo fare da bambino o u “capurale”, “accurdatu” con una delle tante mandrie che allora popolavano le contrade rurali del mio paese. Ma, più in là, vedo la “g” … ricordo che dopo l’esperienza del “craparu” volevo fare “u gualanu”, oggi si direbbe il mandriano, il bovaro ma allora era il mestiere più diffuso in quel piccolo paese della Sila. Portavo “a gaccia”, di traverso, infilata nella cinta, pronta ed affilata per ogni uso:” a fraschijare” i due buoi e una vacca che avevamo; a difendersi dai lupi quando ti toccava dormir sotto le stelle; a “sprullare nu palu” per farne un bastone. All’ombra dei cipressi quasi secolari, stanno le altre:” la M”,” N”, P” … ecco la emme! “ma quando è morta?” mi domando; mi piego e leggo: 1975. E sì, l’ultimo “masru” se n’è andato in quell’anno. Ricordo che dopo le esperienze del gualanu , volevo diventare “nu masru”, falegname o scarparu, non importa purché “nu masru!”.Iniziai a raddrizzare “simigi e puntinielli” con gran dolore delle mia dita ma fu un apprendistato breve perché emigrai dal masru di fronte “chianuazzulu” come lo chiamavano tutti. Era un falegname a cui era rimasto incollato questo nome, un alias ante litteram, per l’arnese che adoperava: u chianuazzulu. Ebbi vita breve come falegname perché u masru non ebbe più bisogno del mio aiuto: avevo rotto la sega a giro nel tentativo maldestro di farmi una ruota dentata per la “tocca tocca”.
Con quest’ultimo mestiere ero arrivato in quinta elementare e abbandonai tutto: lingua, amici e costumi del mio paese. Emigrai in un altro paese e dovetti imparare a parlare in italiano. Le parole che mi avevano accompagnato nella mia infanzia, le persi, per strada, pian piano; alcune, come quelle citate, non le ho più incontrate: sono morte perché chi le utilizzava se n’è andato, come me, mimetizzandosi in altri luoghi, parlando con altre parole e altre tonalità; a me, lontano dalle mie radici, è rimasta quell’inflessione caratteristica dei montanari della Sila. Quando qualche volta, ne ritrovo qualcuna scritta nei post dei tanti social, allora, quelle parole mi fanno fare un viaggio a ritroso, e ritorno ad essere u furise, u gualanu, u masru che volevo diventare.