Dom 2 Apr 2023
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I calabresi sono quelli che parlano più di tutti in dialetto: non è simbolo di ignoranza, ma è una risorsa

Il 17 gennaio le Pro Loco d’Italia sono invitate a inserire tra le loro manifestazioni anche spazi per ricordare l’importanza di dialetti e lingue locali. Di seguito la descrizione della ricorrenza nella pagina di UNPLI, Unione Nazionale Pro Loco d’Italia.

Anche questa iniziativa concorre ad accreditare il dialetto e la lingua “familiare” a diversi livelli, anche formali, per descrivere il tessuto culturale delle comunità, attraverso filastrocche, usi e rituali di carattere profondo e tradizione diretta, che conservano memoria della nostra identità storica. Memoria che non si è persa se Tullio De Mauro in un’intervista su “Repubblica” del 29 settembre 2014, riportava questi dati: “Fino al 1974 la maggioranza degli italiani, il 51,3 per cento, parlava sempre in dialetto. Ora chi parla sempre in dialetto è sceso al 5,4.

Ma, regredendo l’uso esclusivo, è andato crescendo quello alternante di italiano e dialetto: nel 1955 era il 18 per cento, oggi è il 44,1. Quelli che adoperano solo l’italiano sono il 45,5 per cento. È vero che i toscani, i liguri e gli emiliano-romagnoli parlano solo in italiano fra l’80 e il 60 per cento e che i lucani, i campani e i calabresi vanno dal 27 al 20 per cento. Ma è vero anche che chi usa solo il dialetto in queste regioni del Sud non supera il 12-13 per cento”. I numeri non sono “stellari” ma il fatto che ci siano persone che parlano solo in dialetto è un’informazione interessante.

Rispetto al passato, la comunità parlante, su base nazionale, ha cambiato atteggiamento verso l’uso del dialetto. Non è più considerato una “variante” linguistica dei ceti bassi, nè simbolo di ignoranza, invece “rappresenta una risorsa comunicativa in più nel repertorio individuale, a disposizione accanto all’italiano, di cui servirsi quando occorre e specie in virtù del suo potenziale espressivo. Un arricchimento, insomma, e non più un impedimento.” (cfr. Treccani.it – M. Cerruti).

Se è infine vero che si può ricorrere “al dialetto come ad una lingua vera e propria” (E. Montale) e che esso è stato, soprattutto in passato, lo strumento espressivo di intere classi sociali (Pasolini, “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”, in Dialetto e poesia popolare, 1951) la competenza linguistica è uno strumento fondamentale per la lettura della realtà. E conoscere la lingua italiana è importante per la formazione dei cittadini di domani, ma non per questo significa che dovremmo dimenticare la lingua del passato.

Poeti come Albino Pierro hanno così deciso di mettere per iscritto il dialetto (di Tursi, in Basilicata), con un’operazione anche di parziale re-invenzione. Altri come Carlo Emilio Gadda ne hanno fatto un uso “mimetico”  (tra il romano del Pasticciaccio brutto de via Merulana o le parole inventate della Cognizione del dolore). Famoso anche l’uso del siciliano da parte di Andrea Camilleri e il suo recupero di parole dell’infanzia e della memoria capaci di “racchiudere” emozioni. A molti poeti e letterati, dialettali e non, si dedicano Parchi Letterari, calati nelle realtà locali dei luoghi di ispirazione dei grandi autori.