PIERFRANCESCO GRECO
Diverse sono state, soprattutto nei primi secoli dell’era cristiana, le personalità calabresi ascese alla funzione di Romano Pontefice. In particolare, alla luce delle varie fonti, tra esse confrontate, possiamo, con poche incertezze, ritenere che i calabresi investiti, quali Successori di Pietro, del ruolo di Guida della Chiesa universale siano stati almeno dieci in oltre duemila secoli di storia. Papi per larghissima parte degni, che non furono mere ombre sul trono di Pietro; Guide il più delle volte solide, che seppero fronteggiare cruciali avversità in tempi difficili; Pastori sovente coraggiosi, che seppero custodire nel servizio il popolo cristiano, anche a costo della vita.
Quelli attuali sono tempi particolari: lo sono per tutti noi; lo sono in ogni ambito esistenziale; lo sono per ogni istituzione; sono, quindi, tempi particolari anche per la Chiesa, sempre agitata da inquietudini e ombre, e, tuttavia, entrata da qualche anno in una fase nuova, in cui riporre, nonostante tutto, ben più di una speranza. Una fase che ha avuto una data d’inizio precisa: 13 marzo 2013, giorno dell’elezione al soglio pontificio di Papa Francesco, momento culminante delle intense settimane durante cui trovarono sviluppo gli storici accadimenti consumatisi tostamente all’ombra della Cupola di San Pietro. Momenti intensi, per chi è baciato dal dono della fede ma anche per coloro i quali limitano il loro orizzonte esistenziale all’immanente.
Quell’immanente, che, in quell’anno, nell’arco di pochi giorni, ha visto succedersi l’abdicazione di un Pontefice, Benedetto XVI, risultato capace di dare una vigorosa scrollata alle umane sovrastrutture dell’istituzione ecclesiastica con un gesto coraggioso e rivoluzionario, lo svolgimento di un Conclave e, quindi, l’ascesa alla Cattedra di Pietro di un Papa venuto dalla “fine del mondo”; un Papa che, nella scelta del Suo nome, Francesco, ha inteso manifestare a tutta la cristianità, la sua concezione, anch’essa rivoluzionaria, di Chiesa povera, amorevole, nuova, insomma; una Chiesa, la quale, guidata, nella Carità, da un Papa che mostra di rifiutare gli orpelli sovrastrutturali zavorranti la realtà umana, ponendo in primo piano, come palesato dal Bergoglio fin dalla sera della sua elezione, la sua funzione di Vescovo, ergo, di Pastore del Popolo di Dio, possa, nel contempo, custodire e promanare quella tenerezza, quella misericordia, quell’amore, quella verità testimoniate dal Poverello d’Assisi e trovanti fonte nel messaggio evangelico di Cristo, in cui deve attingere linfa il proficuo ministero, o meglio, il fruttuoso “cammino di Amore e di Fiducia” del Vescovo di Roma, depositario di un potere traente senso nella sua funzione di “servizio”, soprattutto “dei più deboli e dei più poveri”; “il servizio”, ovvero “il vero potere”, un “servizio, che ha il suo vertice luminoso nella Croce”, come esplicitato dal nuovo Papa gesuita nell’omelia declamata durante la S. Messa di inizio pontificato, significativamente celebrata nel giorno di San Giuseppe, altro alfiere di quella custodia del cuore, di quella “tenerezza”, di quella generosità, di quel “servizio umile e sincero” in cui si estrinseca la nostra autentica umanità. Un’umanità solidale, unita, protesa alla ricerca del dialogo e della pace, quella a cui fa riferimento, rivolgendosi al cuore delle donne e degli uomini di buona volontà, l’umiltà di Papa Francesco; un’umanità, in cui dominante deve essere la “custodia”, la “cura” dell’altro, dell’ambiente, del creato, il medesimo contestualmente a cui “non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza: il prendersi cura chiede bontà”, ha infatti spiegato Francesco, guardando alle criticità e alle contraddizioni in cui si dibatte l’umanità; quelle criticità presentanti particolare virulenza nelle zone più emarginate della terra, in quella “fine del mondo” di cui ha parlato spesso Francesco, volgendo il pensiero alla sua terra, all’Argentina, e a tutte quelle regioni del globo dimenticate dall’opulenza consumistica occidentale, messa a dura prova da una crisi, spirituale, prima ancora che economica, il cui superamento troverà strada proprio in quella tenerezza, in quel amore, in quella vocazione a donare posta a prodromo del suo pontificato da Francesco, nella sua prospettata rivoluzione della tenerezza e della semplicità, nel suo affettuoso afflato servizievole, da papà, più che da Papa, verso le realtà più disagiate; quelle realtà da cui, si spera, inizierà la rinascita dell’umanità; quelle realtà, in cui forte è la sete di tenerezza, di speranza, di fede; realtà che hanno da sempre accolto e custodito la fede; realtà come la già citata Argentina, o, per focalizzare la riflessione, nell’ambito nostrano, come la Calabria, terra abbracciata dal Verbo fin dai primordi del cristianesimo, come ebbe cura di sottolineare, nel 1984, Giovanni Paolo II, durante la sua visita nella nostra regione, parlando dell’apostolo Paolo che, affermò l’allora Santo Padre, in Calabria “accese la fiaccola della fede cristiana…”, richiamandosi, in questo, agli Atti degli Apostoli, in cui è attestato che “…costeggiando, giungemmo a Reggio”. “…Da qui il Cristianesimo ha iniziato il suo cammino in terra calabra, espandendosi in ogni direzione, sia verso la costa jonica sia verso la costa tirrenica”, affermò Wojtyla, omaggiando così la Calabria, “una terra di fede che ha avuto la sua rappresentanza nell’elenco dei Romani Pontefici, avendo dato alcuni suoi figli alla sede di Pietro”. In effetti, diverse sono state, soprattutto nei primi secoli dell’era cristiana, le personalità calabresi ascese alla funzione di Romano Pontefice;
Papi, indicati, nei documenti antichi, tra cui il Liber Pontificalis, che è una raccolta di biografie dei pontefici da San Pietro a Pio II (1458 – 1464), come provenienti dalla Magna Grecia o “oriundi” o greci di nascita, quando si usava indicare come greco il calabrese; un elemento, questo, che è all’origine della confusione spesso riscontrabile negli scritti relativi ai Pontefici calabresi; in ogni caso, alla luce delle varie fonti, tra esse confrontate, possiamo, con poche incertezze, ritenere che i calabresi investiti, quali Successori di Pietro, del ruolo di Guida della Chiesa universale siano stati almeno dieci in oltre duemila secoli di storia. Papi per larghissima parte degni, che non furono mere ombre sul trono di Pietro; Guide il più delle volte solide, che seppero fronteggiare cruciali avversità in tempi difficili; Pastori sovente coraggiosi, che seppero custodire nel servizio il popolo cristiano, anche a costo della vita.
Iniziamo, dunque, il vostro viaggio nella grande storia dei Papi venuti dalla Calabria.
Il primo Papa nativo della Calabria fu San Telesforo. Venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, fu l’ottavo vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica tra il 127/128 e il 137/138. Sarebbe nato a Terranuova di Calabria attuale Terranova da Sibari, nella Diocesi di Cassano Ionio e, prima di giungere a Roma, avrebbe vissuto da anacoreta, per un lungo periodo in Palestina ed in Egitto. Forse fu tra gli eremiti del Monte Carmelo, motivo per cui i carmelitani lo annoverano tra i loro santi. Il suo pontificato iniziò durante il regno di Adriano e terminò durante il regno di Antonino Pio. Poiché la capitale dell’impero romano era un luogo che permetteva una ampia diffusione di idee, durante il suo pontificato si trasferirono a Roma molti eretici. In questo periodo la principale dottrina eretica fu la gnosi che Telesforo combatté vigorosamente poiché riteneva che potesse indirizzare la religione verso un misticismo lontano dalla realtà in quanto per gli gnostici Dio era completamente separato dall’uomo. Il principale esponente di questa dottrina fu il filosofo Valentino che proprio in questo periodo si trasferì dall’Egitto a Roma riuscendo ad avere anche un gran numero di seguaci nella capitale dell’impero per più di vent’anni. In base a quanto riportato dal Liber Pontificalis, si devono a Telesforo l’istituzione della “messa di mezzanotte”, della “liturgia dell’aurora” e della “liturgia della terza ora” a Natale, della celebrazione della Pasqua di domenica, del digiuno durante la Quaresima, e del canto del Gloria in excelsis Deo, secondo alcuni composto proprio da Telesforo. Tra i vescovi di Roma citati nella sua lista, Ireneo di Lione ricorda solo di Telesforo, che “rese gloriosamente la testimonianza”, cioè che morì martire. Eusebio di Cesarea pone nel 128 gli inizi del suo episcopato, durato undici anni e che si sarebbe concluso nel 138. Al seguito di Ireneo, Eusebio ricorda il suo martirio, e anche che T. fu uno dei predecessori di Vittore nella Sede romana che, pur non celebrando la Pasqua secondo il calendario giudaico il 14 di nis¯an, mantenne la pace con le comunità che si attenevano a quella tradizione senza imporre la propria. La durata di undici anni per il suo episcopato è attestata anche nel Catalogo Liberiano (undici anni, tre mesi e tre giorni), dal 127 al 137. Il Liber pontificalis, nr. 9, aggiunge una serie di notizie, come al solito non accertabili e verosimilmente fantasiose: Telesforo sarebbe stato precedentemente un anacoreta, avrebbe proceduto a quattro ordinazioni per un totale di dodici presbiteri, otto diaconi e tredici vescovi, sarebbe morto martire e sarebbe stato sepolto nella necropoli vaticana presso San Pietro il 2 gennaio, e alla sua morte sarebbe seguito un periodo di sede vacante di sette giorni. In particolare a Telesforo sono attribuite alcune disposizioni disciplinari e liturgiche relative al digiuno prepasquale di sette settimane, alla messa notturna del Natale e alla introduzione del canto del Gloria nella messa.
La notizia sul martirio di Telesforo lo accomuna a quanto il Liber pontificalis afferma di molti papi anteriori a Silvestro I, ma di fatto si trova a coincidere con la testimonianza di Ireneo, più antica e da prendersi in considerazione per la sua eccezionalità nella lista del vescovo di Lione. Relativamente al digiuno prepasquale di sette settimane, una pratica di tale estensione non è attestata prima del sec. IV in Oriente, mentre si sa che a Roma tra i secc. V e VI si osservava un digiuno prepasquale di sei settimane. È dunque probabile che il provvedimento attribuito a Telesforo sia da intendere come il tentativo di imporre, all’epoca della composizione del Liber pontificalis, una disciplina più austera in proposito. Quanto alla celebrazione della messa notturna del Natale, benché quella del Liber pontificalis costituisca la testimonianza più antica di questo uso, tale provvedimento risulta anacronistico per quest’epoca, perché l’introduzione della festa del Natale non è anteriore al sec. IV. Per quel che concerne l’introduzione del canto del Gloria durante la messa, conviene osservare che nella prima redazione del Liber pontificalis, come si ricostruisce dai compendi feliciano e cononiano, la disposizione era limitata alla sola messa del Natale, evidentemente a differenza dall’uso di cantarlo la domenica e nelle feste dei martiri introdotto da papa Simmaco. In ogni caso non si hanno testimonianze del Gloria anteriori al IV secolo, e un intervento in proposito di Telesforo non può corrispondere a un dato reale. A T. è poi attribuita una delle decretali pseudoisidoriane. L’antica tradizione carmelitana, che pretendeva di far risalire le origini dell’Ordine al profeta Elia, annoverava tra i suoi adepti Telesforo, per la fama di anacoreta che gli veniva dalla notizia del Liber pontificalis. La Chiesa Cattolica celebra la sua memoria liturgica il 5 gennaio; le Chiese ortodosse, invece, lo ricordano il 22 febbraio. Il suo emblema è la Palma e di Lui nel Martirologio Romano si legge: «A Roma, deposizione di san Telesforo, papa, che, come attesta sant’Ireneo, nominato settimo vescovo dopo l’Apostolo, subì un glorioso martirio».
La seconda personalità che, partendo dalla Calabria riuscì a sedersi sul trono Petrino, fu Antero, in greco Anteros, nato (la data è ignota) a Petelia, una antica città del Bruzio,da alcuni studiosi la identificata con l’odierna Strongoli. Fu il diciannovesimo vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica dal 21 novembre 235 al 3 gennaio 236. Di questo Papa, venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalle Chiese ortodosse, sappiamo con sicurezza solamente che, dopo essere succeduto a Ponzano, in seguito alla rinuncia di quest’ultimo, regnò circa quaranta giorni, venendo sepolto nella famosa “cripta papale” del cimitero di San Callisto a Roma (come riporta il Martirologio Romano: «3 gennaio – A Roma nel cimitero di Callisto sulla via Appia, deposizione di sant’Antero, papa, che, dopo il martire Ponziano, fu per breve tempo vescovo»). Il Liber Pontificalis riporta che fu martirizzato sotto l’imperatore Massimino Trace per aver fatto raccogliere gli Atti dei martiri da alcuni notai e poi averli fatti depositare negli archivi della Chiesa di Roma. Questa tradizione sembra molto antica e piuttosto veritiera; ciononostante alcuni illustri studiosi, sostengono che non è sufficientemente provata dal solo fatto di essere riportata sul Liber Pontificalis, considerando, fra l’altro, la sua tarda data di compilazione. Già Lenain de Tillemont, osservando che lo stesso Catalogo usa il termine “dormitio” per papa Cornelio, ritenuto martire, e che l’espressione “addormentarsi” è impiegata da Eusebio per Alessandro di Gerusalemme, morto in prigione durante la persecuzione di Decio, ipotizzava che Antero potesse non essere morto per mano del carnefice, ma in carcere o comunque per qualche altra pena che lo avrebbe fatto considerare martire; e anche L. Duchesne, per cui l’espressione del testo era, al contrario, inequivocabile, non escludeva che il redattore del Liber pontificalis potesse aver consapevolmente sostituito il “dormit” del Catalogo Liberiano con la più precisa informazione “martyrio coronatur” sulla base di documenti o tradizioni relativi alla persecuzione di Massimino il Trace successivamente perduti. Il luogo del suo sepolcro fu scoperto da Giovanni Battista de Rossi nel 1854, grazie ad alcuni frammenti deteriorati dell’epitaffio in greco inciso sulla stretta lastra oblunga che chiudeva la sua tomba, indice sia della sua probabile origine che dell’uso generalizzato del greco nella Chiesa di Roma di quel periodo. La Chiesa Cattolica celebra la sua memoria liturgica il 3 gennaio; le Chiese ortodosse, invece, lo ricordano il 5 agosto.
Il terzo Vescovo di Roma calabrese fu Dionisio (o Dionigi), il quale fu il venticinquesimo papa della Chiesa cattolica, che lo venera come santo, dal 22 luglio 259 al 26 dicembre 268. Nacque probabilmente a Terranova da Sibari, allora Magna Grecia. Già presbitero della Chiesa romana, durante il pontificato di papa Stefano I (254-257), fu eletto al sommo pontificato nel luglio 259 e regnò fino al 268. In una lettera a lui indirizzata il vescovo Dionigi di Alessandria lo chiama “uomo ammirabile e rende testimonianza della sua cultura e della sua eloquenza. S. Basilio poi attesta che egli aveva una fede retta e possedeva tutte le virtù. Durante il suo pontificato Dionigi dovette intervenire in una importante questione dottrinale riguardante l’omonimo vescovo di Alessandria. Questi era stato accusato, da alcuni suoi chierici, presso il pontefice, di negare l’eternità del Verbo, la sua consustanzialità con il Padre, e di asserire che era una creatura. L’accusa non era infondata, poiché il vescovo alessandrino, nella foga di combattere l’errore di Sabellio, in alcune sue lettere aveva adoperato delle frasi che veramente sembravano affermare quegli errori; lo stesso s. Atanasio, pur cercando di spiegarle in senso ortodosso, non ne negava il tenore. Per esaminare la questione, Dionigi convocò un sinodo e a nome di tutti scrisse due lettere ad Alessandria: una diretta al vescovo, con la quale chiedeva spiegazioni sulla sua fede; l’altra, alla Chiesa alessandrina, nella quale pur tacendo il nome dell’accusato ne confutava e condannava la dottrina.
Questa seconda lettera è un documento dottrinale importantissimo, in cui si trova già condannato avanti tempo quello che poi sarà l’errore degli ariani. Dionigi, pur non discutendo da teologo, ma parlando come custode e difensore della rivelazione aflìdata alla Chiesa, con parole chiare ed energiche, da maestro autorevole, vi condanna sia il modalismo di Sabellio, sia coloro che, per confutare quell’errore, sembrano ammettere in Dio una specie di triteismo; afferma quindi non meno chiaramente l’unità e trinità di Dio; che il Verbo non è una creatura, ma è stato generato dal Padre, dal quale è ab eterno, e quindi non ebbe esistenza col tempo. Il vescovo alessandrino, accettando in semplice umiltà l’esposizione di Dionigi, rispose con una lettera in cui spiegava il suo pensiero e poi più a lungo con una Apologia. Dalla lettera di s. Basilio sopra citata, sappiamo ancora che Dionigi, continuando la tradizione caritatevole della Chiesa romana a favore dei bisognosi, scrisse ai fedeli di Cesarea di Cappadocia per consolarli delle tribolazioni sofferte in occasione di una scorreria di barbari, ed insieme inviò degli aiuti in denaro per la liberazione di quei cristiani che erano stati fatti prigionieri. L’autore del Liber Pontificalis afferma, con poca verosimiglianza, che Dionigi era un monaco e che, eletto papa, distribuì ai presbiteri romani la direzione delle chiese e dei cimiteri. Sulla sua morte le indicazioni delle fonti sono alquanto discordi. Nella Depositio Episcoporum il suo nome è registrato al 27 dicembre, e il luogo della sepoltura è indicato nel cimitero di Callisto, nel Catalogo Liberiano, invece, e nel Martirologio Geronimiano, seguiti anche dal Romano, si dice che morì il 26 dicembre e fu sepolto nel cimitero di Priscilla: questa notizia è certamente falsa. Il Catalogo, poi, aggiunge che Dionigi morì martire, ma ciò, oltre al fatto di essere in contrasto con l’indicazione della Depositio, è anche inverisimile, poiché il pontificato di Dionigi coincise con il governo degli imperatori Gallieno e Claudio il Gotico, di cui il primo revocò espressamente la persecuzione scatenata dal padre Valeriano, mentre il secondo non fu persecutore. Ritratto, nell’iconografia , in abiti papali con un libro, riguardo a Papa Dionisio, nel Martirologio Romano, si legge: «26 dicembre – A Roma nel cimitero di Callisto sulla via Appia, san Dionigi, papa, che, colmo di ogni virtù, dopo la persecuzione dell’imperatore Valeriano, consolò con le sue lettere e la sua presenza i fratelli afflitti, riscattò i prigionieri dai supplizi e insegnò i fondamenti della fede a coloro che li ignoravano».
Sarebbe originario di San Giorgio Morgeto (RC), il quarto Papa di provenienza calabra, ovvero Sant’Eusebio da Casegghiano (anche se alcune fonti lo indicano nativo della Sardegna). Eletto, forse, nel 311 (il 18 aprile) e martire il 17 agosto dello stesso anno, fu il trentunesimo Papa dopo San Pietro. Sommo Pontifice, come già esplicitato, per 4 mesi, sotto Massenzio, si commemora il 17 agosto. Il suo episcopato viene fissato da alcuni studiosi nell’anno 308; altri pensano invece che l’anno fosse il 309 oppure il 310. Il Catalogo Liberiano dice: “Eusebius mense IIII die XVI, a XIII kalendas Maii usque in diem XVI kalendas Septembris”, pertanto dal 18 aprile fino al 17 agosto di un anno non precisato. Egli sarebbe succeduto a Marcello dopo una vacanza della sede di tre mesi e otto giorni, e non di venti giorni come vuole il Liber pontificalis I dettagli del suo pontificato possono essere dedotti dall’epitaffio di otto esametri composto da Papa Damaso I per la sua tomba. «DAMASO VESCOVO FECE – Eraclio non volle che i Lapsi facessero penitenza dei loro peccati. Eusebio insegnò ai miseri a piangere le loro colpe. Si dividono in parte i fedeli col crescere della passione. Ribellioni, uccisioni, guerre, discordia, liti. D’improvviso son tutti e due espulsi dal ferocissimo tiranno [Massenzio], sebbene il papa serbasse interi i vincoli della pace. Lieto soffrì l’esilio per giudizio del Signore, e sui lidi di Sicilia lasciò il mondo e la vita. AD EUSEBIO VESCOVO E MARTIRE». È solo grazie ad antiche trascrizioni che questo epitaffio è giunto fino a noi. Alcuni frammenti dell’originale, insieme ad una copia di marmo del VI secolo costruita per sostituire l’originale distrutto, fu trovata da Giovanni Battista de Rossi nella Cappella Papale, delle catacombe di Callisto. Da questo scritto si evince che i gravi dissensi interni alla Chiesa romana sulla riammissione degli apostati (i lapsi) nati durante la persecuzione di Diocleziano, che avevano creato problemi già sotto Marcello, continuarono sotto Eusebio. Questi confermò l’atteggiamento adottato dalla Chiesa romana dopo le persecuzioni di Decio (250-251): gli apostati non sarebbero stati esclusi per sempre dalla comunione ecclesiastica, ma avrebbero potuto essere riammessi solamente dopo avere scontato la giusta penitenza (Eusebius miseros docuit sua crimina flere). Questo punto di vista fu osteggiato da una fazione di Cristiani capeggiata da un certo Eraclio. Non si sa se quest’ultimo ed i suoi sostenitori appoggiassero un punto di vista più rigido (Novazianisti) o un’interpretazione più clemente della legge. Comunque la seconda ipotesi è di gran lunga la più probabile: Eraclio doveva essere il capo di una fazione di apostati che esigeva la reintegrazione immediata nel corpo della Chiesa. Damaso tratteggiò con termini molto forti il conflitto che ne conseguì (seditcio, cœdes, bellum, discordia, lites). È probabile che Eraclio ed i suoi sostenitori cercassero di agevolare con la forza la loro riammissione ai sacri riti e che i fedeli raggruppati intorno ad Eusebio se ne risentissero. A causa di questi contrasti, che furono caratterizzati anche da episodi di violenza, sia Eusebio che Eraclio furono esiliati dall’Imperatore Massenzio il quale, incurante di qualsiasi scrupolo religioso, soffocò i tumulti nel sangue al solo fine del mantenimento della pubblica quiete. Eusebio, in particolare, fu deportato in Sicilia il 17 agosto, dove morì poco dopo, il 21 ottobre. Il suo corpo fu riportato in seguito a Roma, probabilmente il 26 settembre del 311 (secondo il Depositio Episcoporum contenuto nella “Cronografia” del 354), e deposto in un cubicolo nelle Catacombe di Callisto, vicino al sepolcro di papa Caio. La sua ferma difesa della disciplina ecclesiastica e l’esilio a cui fu condannato lo fecero venerare come martire, ma non si hanno a proposito notizie certe. Attualmente il suo corpo, secondo il Panciroli, dovrebbe trovarsi nella Basilica di San Sebastiano fuori le mura, mentre secondo il Piazza alcune reliquie sarebbero conservate nella Chiesa di San Lorenzo in Panisperna. La sua memeoria liturgica si celebra il 17 agosto, giorno in cui fu deportato. Nel Martirologio Romano si legge: «17 agosto – In Sicilia, anniversario della morte di sant’Eusebio, papa, che, valoroso testimone di Cristo, fu deportato dall’imperatore Massenzio in quest’isola, da dove esule dalla patria terrena, meritò di raggiungere quella celeste; il suo corpo fu traslato a Roma e deposto nel cimitero di Callisto».
Il quinto calabrese ad ascendere al soglio di Pietro fu Zosimo, quarantunesimo Vescovo di Roma e, dal 18 marzo 417 alla sua morte (avvenuta a Roma, il 26 dicembre 418) papa della Chiesa cattolica, che lo venera come santo. Nato a Mesoraca e, per questo, indicato come greco di nascita (forse discendente da famiglia giudaica, visto che il padre si chiamava Abramo), il suo pur breve pontificato fu caratterizzato da gravi conflitti con i vescovi della Gallia e con quelli africani. Zosimo era un prete romano al tempo del pontificato di s. Innocenzo I (401-417); fu eletto come successore di papa Innocenzo e consacrato il 18 marzo 417. Il suo fu un breve pontificato (infatti morì, come detto, il 26 dicembre 418, quindi nemmeno due anni), ed a causa del suo carattere impulsivo, precipitoso e della scarsa conoscenza della Chiesa Occidentale, ebbe quasi solo insuccessi. Già quattro giorni dopo la sua elezione, si lasciò convincere dall’ambizioso vescovo di Arles Patroclo, il quale aveva occupata quella sede episcopale nel 411, con il favore di patrizi locali, estromettendone il vescovo Erote, di elevare la sede episcopale di Arles ad una specie di supermetropoli, facendosi per questo assegnare dal papa i diritti metropolitani su altre province della Gallia, come Vienne, Narbona, Marsiglia, Lione, con la scaltra scusa espressa da Patroclo, che Arles era stata la Chiesa madre della Gallia. Papa Zosimo quindi scrisse una lettera a tutti i vescovi della Gallia e delle sette province coinvolte, ribadendo la tesi di Patroclo, il quale avrebbe avuto il diritto fra l’altro di ordinare i vescovi di dette province. Ciò suscitò l’indignazione dei vescovi interessati, i quali vedevano annullarsi quelle prerogative indipendenti, decretate a loro favore nel Concilio di Torino di pochi anni prima, ci fu chi rassegnato si sottomise e chi continuò nei suoi diritti, come il santo vescovo di Marsiglia Proculo, il quale per punizione fu deposto, ma la repentina morte di Zosimo, sospese queste disposizioni, che portarono solo confusione nella Chiesa della futura Francia, poi riaggiustate dal suo successore s. Bonifacio I (418-422). Altro grave problema in cui si venne a trovare papa Zosimo fu l’eresia pelagiana, proposta dal monaco britannico Pelagio (360-422), già condannata dal suo predecessore Innocenzo I il 27 gennaio 417 e dai Concili di Cartagine del 411 e 416 e quella più estrema dell’eretico pelagiano il sacerdote Celestio († 431 ca.) dello stesso periodo; egli credette alle tesi difensive espresse dai fautori di Pelagio e da Celestio in persona e rimproverò i vescovi africani, per la troppa fretta avuta nel condannare le due correnti considerate eretiche, ma nel contempo non assolse, con una sentenza che sarebbe stata altrettanto frettolosa, i due eretici. I vescovi dell’Africa non condivisero il giudizio del papa, instaurando una controversia con Roma, perché Zosimo fu ritenuto troppo credulo, delle assicurazioni fatte da Pelagio e Celestio, riguardo l’ortodossia della fede. Ad ogni modo nell’inverno del 417-418 papa Zosimo era ritornato sulle posizioni della sentenza di papa Innocenzo I; il 1° maggio 418 si riunì a Cartagine un altro Concilio generale con 214 vescovi africani, dove si esaminò ampiamente la dottrina cattolica sull’argomento del peccato originale e la necessità della grazia, oggetto delle eresie. Papa Zosimo nel giugno-luglio 418, redasse un importante documento di condanna del pelagianesimo, la “Epistula Tractoria”, indirizzata alle principali Chiese d’Oriente e dell’Occidente. L’Epistola fu bene accolta ma non mancarono chi si oppose, come diciotto vescovi italiani, che rifiutarono di sottoscrivere la condanna di Pelagio e Celestio e quindi vennero scomunicati e deposti. Il suo forte temperamento lo fece trovare in lotta ideologica per altre questioni, con i vescovi dell’Africa, allora numerosi e potenti, che non tolleravano le ingerenze di Roma in questioni giudicate preminentemente di loro competenza. Negli ultimi mesi di vita, vide sorgere anche a Roma una opposizione contro di lui, al punto che si rivolse per lamentarsene, alla corte di Ravenna, si accingeva a lottare contro questo gruppo, quando si ammalò, morendo il 26 dicembre 418 e venendo sepolto nella basilica di S. Lorenzo sulla via Tiburtina. Moralissimo ed integerrimo, prescrisse che i figli illegittimi non potessero essere ordinati sacerdoti. Nel Martirologio Romano sta scritto: «A Roma sulla via Tiburtina presso San Lorenzo, deposizione di san Zosimo, papa».
Notizie alquanto incerte sono quelle relative alle origini di Agatone da Reggio Calabria, che fu il sesto figlio di Calabria a guidare la Chiesa. Eletto il 27 giugno 678, sedette sul trono da Pontefice fino al 10 gennaio 681, quando morì. Papa Agatone, di origine greca (quindi, verosimilmente, calabra) sarebbe nato (secondo alcuni documenti nel 575) in un villaggio della valle di Saline (Vallis Salinarum, odierna Piana di Gioia Tauro) chiamato Aquilano (e che ora è distrutto), un villaggio-fortezza romano, probabilmente corrispondente all’attuale Pentidattilo, frazione del Comune di Melito Porto Salvo, in Provincia di Reggio Calabria (anche se alcune fonti lo indicano come nato in Sicilia, a Palermo). Settantanovesimo vescovo di Roma e papa della Chiesa cattolica, è venerato come santo dalla Chiesa cattolica (che lo celebra il 10 gennaio) e dalle Chiese ortodosse. Nato da genitori benestanti e devoti, fece dono dell’eredità dopo la loro morte e si ritirò in un monastero a Palermo. Benché l’anno della sua nascita sia in effetti sconosciuto, si narra che avesse centotré anni al momento della sua elezione e centosei al momento della morte. Il 12 agosto ricevette dall’imperatore Costantino Pagonato una lettera nella quale questi, avendo ormai risolte le questioni militari, si dichiarava pronto a riprendere il progetto di riunificazione ecclesiastica tra Roma e Bisanzio. Egli pensava di indire una conferenza episcopale in cui fossero discussi i problemi emergenti ed eliminata ogni controversia. A questo scopo chiedeva al papa l’invio a Costantinopoli di alcuni suoi rappresentanti che fossero bene al corrente di tutta la problematica. Assicurava inoltre un ampia protezione imperiale alla delegazione stessa. Per preparare la delegazione Agatone riunì in Laterano il 27 marzo del 680 un concilio italiano che scelse i rappresentanti episcopali da mandare a Bisanzio insieme ai legati pontifici e approvò il testo sinodale che sarebbe stato presentato alla conferenza. Vi era esposta la dottrina delle due volontà e i modi di agire in Cristo con riferimento esplicito a quanto deciso nel concilio Lateranense da Martino I. La delegazione partita da Roma dopo il sinodo del marzo 680 comprendeva: i presbiteri Teodoro e Giorgio, il diacono Giovanni (il futuro papa Giovanni V) e il suddiacono Costantino (che diverrà papa Costantino), che erano i legati della Chiesa romana; il presbitero Teodoro della Chiesa ravennate; i vescovi Giovanni, di Reggio, Abbondanzio, di Patèrno, e Giovanni, di Porto, per le Chiese dell’ubbidienza romana; e i rappresentanti dei monasteri greci di Roma. Al riguardo, in una missiva scritta in tale circostanza, e indirizzata al Concilio di Costantinopoli, il Papa confermerebbe la sua origine calabrese, come si osserva al riguardo ne La Calabria illustrata. (Napoli, Li Socij Dom. Ant. Parrino 1691): “si portò à credere Cittadino di Reggio Papa Agatone da alcune sue parole nella lettera scritta al Concilio di Costantinopoli, a quale destinando Legati, dall’altro Romano, Giovanni Vescovo di Reggio ed Abbondanzo di Paterno, oggi di Cirò, li chiama: Conterraneos; ed essendo questi per Nazione Calabresi, se egli era lor Conterraneo, apertamente si confessa Calabrese”. Giunta il 10 settembre del 680 a Costantinopoli, la delegazione fu accolta dal patriarca Giorgio che provvide a convocare i metropoliti ed i vescovi bizantini. Quella che era stata indetta come una conferenza divenne infine un vero e proprio concilio ecumenico, il sesto in Oriente. Alla prima sessione risultarono infatti presenti i rappresentanti di tutti i patriarcati; essa si aprì il 7 novembre del 680 in una sala del palazzo imperiale. Presidente era l’imperatore, affiancato da due presbiteri e un diacono romani quali rappresentanti del papa. In Italia nel frattempo scoppiò una grave pestilenza che fece un numero impressionante di vittime. A Costantinopoli intanto il concilio andò avanti; dopo 18 sedute si arrivò ad un decreto emanato il 16 settembre del 681. In esso si ribadiva la professione di fede stabilita dai cinque precedenti concili e si approvava all’unanimità la dottrina delle due volontà e delle due energie in Cristo, che non erano in contrasto con loro, confermando inoltre il testo sinodale del Laterano. L’eresia monotelita fu ovviamente condannata. Il concilio indirizzò infine uno scritto al papa pregandolo di confermare le decisioni prese. Ma Agatone era già morto il 10 gennaio del 681 ed era stato sepolto in San Pietro: aveva raggiunto, a quanto pare, 106 anni. Un pontificato intenso, segnato da indiscutibili successi, come quello che costituì la presenza a Roma, per il sinodo, dell’arcivescovo di Ravenna, Teodoro (677-691), il quale venne a fare in qualche modo atto di sottomissione, nonostante l’autocefalia cui pretendeva la sua sede (un legato della Chiesa ravennate, il prete Teodoro, si unì, come s’è visto, alla delegazione occidentale al VI concilio ecumenico). Agatone si interessò anche della sorte della Chiesa anglosassone: ricevette paternamente l’abate di Wearmouth, Benedetto Biscop, e rimise sul suo legittimo seggio l’arcivescovo di York, Vilfrido, ingiustamente deposto da Teodoro di Canterbury. Tra i provvedimenti presi in ambito liturgico, da menzionare è quello definito nel 680, quando ordinò che al posto dell’agnello (immagine con la quale si raffigurava Cristo) si ponesse un uomo crocifisso. Nel complesso, Sant’Agatone si distinse per profondità di dottrina e spirito caritativo specialmente verso i poveri. Patrono di Palermo, riguardo ad Agatone, nel Martirologio Romano si legge: «A Roma presso san Pietro, deposizione di sant’Agatone, papa, che contro gli errori dei monoteliti custodì integra la fede e promosse con dei sinodi l’unità della Chiesa».
Conterraneo di Agatone fu il suo successore, Leone II, di Reggio Calabria, ottantesimo papa della Chiesa cattolica dal 17 agosto 682 alla sua morte, nel luglio 683. Venerato dalla Chiesa cattolica come santo, cercò di affermare la supremazia papale contro i continui tentativi dei patriarchi di Costantinopoli di liberarsi dalla dipendenza da Roma. Poche notizie certe sulla nascita e sulla vita precedente alla sua elezione a pontefice. Nativo, nel 611, della Calabria, sembra, analogamente ad Agatone, nella Vallis Salinarum (anche se, alla tregua del suo predecessore, alcune fonti lo indicano come nato in Sicilia; un elemento, questo, probabilmente dovuto all’abitudine, diffusa nell’antichità, di indicare alcune zone della Calabria, con la denominazione “Sicilia”, come viene evidenziato nel già citato saggio La Calabria illustrata) e figlio di Paolo Manejo, un medico di grande fama, il settimo Papa calabrese, nel Liber Pontificalis, risulta dotato di grande eloquenza e vasta erudizione: conosceva le lingue greca e latina, (“vir eloquentissimus, in divinis scripturis sufficienter instructus, greca latinaque lingua eruditus”), e aveva un’attitudine notevole per il canto e la salmodia (“cantelena ac psalmodia praecipuus et in earum sensibus subtilissima exercitatione limatus”; cfr. Le Liber pontificalis, p. 359), tanto da far ritenere possibile che egli avesse fatto parte, o fosse stato addirittura alla guida della “schola cantorum” lateranense. Al di là di tale ipotesi non sono tuttavia giunte altre notizie sulla sua precedente carriera ecclesiastica, che presumibilmente si svolse in ambito romano. Appare, insomma, plausibile ritenere che, al momento della sua elezione, Leone risiedesse da tempo nell’Urbe. Eletto nel gennaio del 681, fu consacrato papa nell’agosto 682, cioè diciotto mesi dopo la sua elezione, perché un poco prima l’imperatore d’Oriente Costantino IV Pogonato, aveva ripristinato l’antica norma di trasmettere a Bisanzio gli atti relativi all’elezione del papa per averne l’approvazione e quindi il permesso imperiale alla consacrazione; inoltre a Costantinopoli in quei mesi si celebrava il VI Concilio Ecumenico, quindi i vescovi completarono l’Assise, così ritornati a Roma sottoposero a Leone II i risultati del Concilio e l’approvazione per lui da parte dell’imperatore. Già con questi atti conciliari papa Leone II dovette affrontare il primo disagio, infatti essi nel condannare il monotelismo, coinvolsero fra gli eretici anche il papa di Roma antica, Onorio. Leone II non potendo mettere in pericolo la pace religiosa che si era instaurata fra la Chiesa e l’Impero, approvò le delibere conciliari, specificando però che papa Onorio era stato negligente e imprevidente e quindi permise che la fede immacolata fosse contaminata, ma che non poteva essere annoverato fra gli eretici.
Questa eresia sorse nel secolo VII nella Chiesa Bizantina, essa pur riconoscendo le due nature di Cristo, affermava però che in Lui la volontà divina predominava su quella umana. Purtroppo gli Atti conclusivi del Concilio contenevano in chiusura un indirizzo di omaggio all’imperatore Costantino IV, il quale era presentato come collaboratore immediato di Dio, cioè esecutore diretto della volontà divina in concorrenza quindi con il papa e anche indipendentemente da lui, inoltre l’imperatore nella sua lettera, scrive al papa quasi da superiore ad inferiore, rivendicando a sé il merito del ristabilimento della fede. In tutto ciò s’intravedevano già i segni di futuri scontri fra Bisanzio e Roma che esplosero nel decennio seguente. Altro grave problema che dovette affrontare, fu il rifiuto che la Chiesa di Ravenna da qualche tempo, opponeva all’obbedienza al romano pontefice e quindi era divenuta scismatica, con il sostegno dell’imperatore bizantino, che nel 666 aveva dichiarata Ravenna indipendente dal vescovo di Roma. Con l’arcivescovo ravennate Teodoro, si addivenne ad un accordo, in cui la supremazia di Roma era riconosciuta e che ogni futuro arcivescovo avrebbe ricevuto la consacrazione dalle mani del papa a Roma, a Teodoro e ai suoi successori venivano concesse esenzioni di tasse relative alla carica ricevuta. Restaurò la chiesa di santa Bibiana, nella quale fece trasferire i corpi dei santi martiri Simplicio, Faustino e Beatrice, che erano sepolti lungo la via di Porto. Celebrò con grande pompa esterna le funzioni religiose, affinché i fedeli fossero sempre più consapevoli della Maestà di Dio; istituì l’aspersione dell’acqua benedetta nei riti cristiani e sul popolo. Morì il 3 luglio 683 e fu sepolto in S. Pietro; intorno al 1100, le sue reliquie insieme a quelle dei suoi successori Leone III e IV, furono poste vicino a quelle di s. Leone I Magno. Quando fu eretta la nuova basilica di S. Pietro, le reliquie dei papi Leone I, II, III e IV, furono trasportate il 27 maggio 1607 sotto l’altare di S. Maria de columna alla presenza di papa Paolo V, che ne aveva effettuato una ricognizione. Il Martirologio Romano riferisce: «A Roma presso san Pietro, san Leone II, papa: uomo versato tanto nella lingua greca quanto in quella latina, amante della povertà e dei poveri, accolse le decisioni del III Concilio di Costantinopoli».
Nativo della costa ionica fu, invece, l’ottavo Papa proveniente dai lidi calabri, ovvero Giovanni VII, ottantaseiesimo papa della chiesa cattolica, dal 1º marzo 705 al 18 ottobre 707, quando spirò. Di origine greca (come il predecessore Giovanni VI), egli nacque in una cittadina, Rossano, da dove sarebbe venuto un altro Giovanni di lignaggio greco, Giovanni XVI, un antipapa, di cui parleremo più avanti. Figlio di Platone e di Blatta, il padre era il principale funzionario addetto alla custodia del palazzo imperiale sul Colle Palatino. In merito, risulta opportuno menzionare l’epitaffio che, prima di diventare papa, Giovanni dedicò ai suoi genitori – suo padre morì il 7 novembre 686, la madre invece spirò l’anno successivo –. Questa testimonianza (conservata materialmente nella chiesa di S. Anastasia fino al XV secolo) è preziosa, perché è essa a svelarci che Platone era un membro dell’amministrazione bizantina; era, come detto, addetto alla “cura Palatii urbis Romae”, ossia presiedeva al restauro dell’antico palazzo imperiale sul Palatino, diventato la residenza del luogotenente dell’esarca; Giovanni glorificò il padre per quest’opera, che aveva rappresentato l’incarico più prestigioso di Platone, il quale doveva essere specializzato in tale tipo di lavoro, poiché si afferma che in precedenza aveva diretto i restauri di altri palazzi. L’epitaffio inoltre indica che nel 687 Giovanni aveva l’incarico di rettore del Patrimonio della via Appia. Giovanni è quindi un altro pontefice di origine orientale del quale è documentato un lungo servizio presso la Chiesa di Roma, prima di essere eletto papa, il 1° marzo 705. Anche nel suo caso non si può perciò affermare che egli sia stato uno dei pontefici del periodo definito della “cattività bizantina del papato”, durante il quale alcuni papi di provenienza orientale sarebbero stati eletti su pressione degli imperatori bizantini per assecondare la loro politica religiosa. A differenza di quanto era avvenuto durante il pontificato del suo predecessore – il duca longobardo di Benevento Gisulfo si era impadronito di varie località del Lazio meridionale ed era arrivato con le sue truppe fino quasi a Roma – i Longobardi non solo non diedero a Giovanni alcun problema, ma ebbero con lui buoni rapporti. Il duca di Spoleto Faroaldo II chiese al pontefice di confermare i beni del monastero di S. Maria di Farfa – fondato dal franco Tommaso col suo beneplacito -, segno evidente di quanta importanza avesse per il duca l’assenso del papa. L’evento che però evidenzia meglio di tutti l’andamento positivo dei rapporti tra Roma e i Longobardi è senza dubbio costituito dalla concessione da parte di re Ariperto II di un diploma, che riconosce alla Chiesa di Roma la proprietà del Patrimonio delle Alpi Cozie, del quale si era impadronito Rotari circa sessant’anni prima in occasione della conquista della Liguria. Significativo è il fatto che il diploma, anche se aveva la forma di una donazione di re Ariperto II, decretava in realtà il ripristino dei diritti del precedente proprietario riconoscendo quindi implicitamente che questi territori erano stati sottratti dai Longobardi. Non altrettanto sereni furono invece i rapporti con Costantinopoli, dove nel 705 l’imperatore Giustiniano II si era impadronito di nuovo del potere perso dieci anni prima. Il sovrano si vendicò duramente dei suoi avversari, tra i quali c’era il patriarca di Costantinopoli Callinico, che aveva appoggiato l’usurpatore Leonzio.
Callinico fu deposto, accecato e mandato a Roma, probabilmente con l’intento di mostrare qual era la fine di quelli che osavano opporsi all’imperatore. Il messaggio era rivolto sia al pontefice sia alle truppe dell’Italia bizantina che in più occasioni si erano opposte con le armi agli inviati dell’imperatore. All’arrivo di Callinico seguì quello di due vescovi, mandati dall’imperatore, che avevano con loro gli atti del concilio conosciuto come Quinisesto o “in Trullo”, tenutosi nel 691-692, nel quale era stata promulgata una serie di canoni che recepivano tradizioni della cristianità orientali e che avrebbero dovuto essere validi per tutti i cristiani. Papa Sergio si era fermamente opposto alle decisioni prese da quel concilio e l’imperatore non era riuscito a farlo punire a causa di una sommossa delle truppe di Ravenna e della Pentapoli e della sua successiva deposizione. Ora Giustiniano II tornava nuovamente alla carica e chiedeva che Giovanni riunisse un concilio per indicare quali fossero i canoni del Quinisesto che la Chiesa di Roma accettava e quali respingeva. Non abbiamo a disposizione i risultati di questo sinodo, ma la risposta del Papa dovette essere abbastanza in linea con le richieste imperiali, poiché il suo biografo osserva criticamente che il Papa, spaventato a causa della sua umana debolezza, rimandò gli stessi atti senza alcuna correzione. Ciò ha indotto molti storici ad annoverare Giovanni tra i papi che non seppero resistere alle richieste degli imperatori in materia di religione. L’atteggiamento remissivo del papa ha fatto sospettare che alcuni affreschi della chiesa di S. Maria Antiqua, da lui commissionati, rappresentassero un ulteriore adeguamento di Giovanni alla politica religiosa dell’imperatore Giustiniano II. La grande composizione posta nella parte superiore del muro absidale raffigura una grandissima crocifissione ai cui lati c’è una folla di persone, un’iscrizione con delle frasi bibliche, nonché angeli e serafini. È stato ipotizzato che ciò raffigurerebbe una trasposizione dell’Adorazione dell’Agnello in ossequio al canone 82 del concilio Quinisesto, che vietava la rappresentazione di Cristo sotto la forma di agnello. Questa interpretazione è stata in seguito contestata da J.-M. Sansterre, il quale ha invece fatto notare che al di sotto di questa composizione si possono vedere dipinti quattro papi – a sinistra Giovanni e Leone I, e a destra un papa del quale non si conosce il nome e Martino I – e quattro padri della Chiesa – a sinistra s. Agostino e una figura distrutta e a destra s. Gregorio Nazianzeno e s. Basilio – che tengono un rotolo contenente le loro opere citate negli atti del concilio del Laterano (649) nel quale si condannò il monotelismo. Un riferimento all’opposizione alle ingerenze imperiali in materia di religione è costituito pure dalla presenza di papa Martino; questi, infatti, fu arrestato, processato a Costantinopoli e inviato in esilio a Cherson con l’accusa di avere avuto un ruolo importante nella rivolta contro l’esarca Olimpio, ma il vero motivo consisteva nella sua decisa condanna della politica religiosa dell’imperatore favorevole al monotelismo. Sansterre inoltre ipotizza che il pontefice vicino a Martino I sia il già incontrato pontefice di origine calabrese Agatone, vale a dire colui che fu papa durante il VI concilio ecumenico che vide la vittoria delle posizioni romane e il ritorno della concordia tra Roma e Costantinopoli. Un’altra rivendicazione delle posizioni di Roma sembra essere attestata dai mosaici che decoravano la cappella dedicata a Maria che Giovanni ordinò di costruire in S. Pietro, e dove fece porre la sua tomba. Si possiedono solamente alcuni frammenti di questi mosaici, ma disegni risalenti al XVII secolo mostrano l’esistenza di due cicli, uno dedicato a Cristo, l’altro a s. Pietro. Quest’ultimo raffigura la sua predicazione a Gerusalemme, Antiochia e Roma, la sua lotta con Simon Mago e il suo martirio; nelle immagini in cui predica, l’apostolo è insolitamente molto più grande rispetto a coloro che lo ascoltano stando in ginocchio. Tutto ciò induce a ritenere che si desiderasse magnificare il primato di Pietro, e quindi del papa, visto che l’apostolo era ritenuto il primo vescovo di Roma, sia in Oriente che in Occidente. Quanto alla tomba del papa va rilevato come già dalla fine del V secolo i pontefici, imitando l’esempio di Leone I, si erano fatti seppellire nella basilica di S. Pietro. Giovanni però, a differenza dei suoi predecessori che si erano accontentati di un modesto sepolcro, fu il primo a farsi inumare in un oratorio costruito appositamente, sottolineando così fortemente la continuità apostolica e il suo legame con Leone I, considerato allora come il principale assertore del primato papale. Non è inoltre da escludere che pure la sua decisione di fare costruire un nuovo palazzo sul Palatino, dove una volta si trovava il palazzo imperiale, riflettesse lo stesso punto di vista. Oltre alle suddette costruzioni, Giovanni ordinò di restaurare la semidistrutta chiesa di S. Eugenia e di riparare i cimiteri dei SS. Marcelliano e Marco e di papa Damaso. La sua attenzione per l’arte è testimoniata anche dal particolare che fece dipingere vari affreschi in numerose chiese nei quali, come osserva un po’ ironicamente il suo biografo, molto spesso era ritratta anche la sua effigie. Nel suo breve pontificato Giovanni ordinò diciotto vescovi. Morì il 18 ottobre 707.
Fu originario del versante ionico della nostra regione anche il nono Pontefice calabrese, Zaccaria da Siberene (l’odierna Santa Severina),il quale fu il novantunesimo papa della Chiesa cattolica, che lo venera come santo, dal novembre 741 (consacrazione il 10 dicembre) alla sua morte, nel 752. Nato a Santa Severina nel 679 (proveniva da una famiglia greca della Calabria), non si hanno notizie sicure sulla sua sua vita, né sulla carriera ecclesiastica. Figlio di Policronio, Zaccaria in famiglia dovette ricevere un’apprezzabile istruzione; conosceva infatti oltre che il greco anche il latino e possedeva una biblioteca privata di codici liturgici che in seguito donò alla basilica di S. Pietro. Può forse essere identificato con un diacono omonimo che sottoscrisse gli atti del sinodo romano del 732; certamente fu tra i collaboratori di papa Gregorio III, giacché in questa funzione lo conobbe l’evangelizzatore della Germania, Bonifacio, probabilmente durante il suo terzo viaggio a Roma, nel 737-738. Venne elevato al pontificato pochi giorni dopo la morte di Gregorio III, il 3 dicembre del 741, in una situazione politica particolarmente difficile. Fu il primo papa per cui non fu richiesto il benestare né a Ravenna, né a Costantinopoli. Il periodo in cui salì al trono pontificio, era, lo si è già evidenziato, piuttosto difficile per la Chiesa, con i Longobardi che premevano alle porte di Roma e che già con il suo predecessore, avevano invaso il ducato romano, comandati dal re Liutprando. Inoltre la situazione generale era abbastanza confusa, con gli esarchi di Ravenna (molto instabili nelle loro relazioni con i papi), e con l’Impero d’Oriente in piena lotta iconoclasta; la stessa Roma era in una situazione non bene determinata, perché non era più soggetta all’imperatore bizantino, ma non era neppure ancora indipendente. Fu impegnato per vario tempo, nel trovare una soluzione pacifica con il re longobardo invasore Liutprando (712-744), che incontrò a Terni nel 742 e dal quale ottenne la restituzione delle città di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, precedentemente occupate; riuscì a riavere anche altri territori che i Longobardi occupavano da 30 anni e infine stipulò con il re una tregua ventennale. Andando nello specifico, al momento dell’elezione di Zaccaria, re longobardi Liutprando e Ildeprando, associati nel potere, stavano infatti conducendo un’aggressiva politica contro i territori che l’Impero bizantino possedeva nell’Italia centrale: l’Esarcato (Romagna), la Pentapoli (Marche) e lo stesso Ducato romano, ossia il territorio regionale corrispondente a un dipresso all’attuale Lazio, su cui i papi avevano recentemente acquistato un’influenza politica che probabilmente comportava anche funzioni di governo, esercitate d’accordo con le autorità bizantine. Infatti l’esarca, rappresentante dell’imperatore in Italia, non era più in grado di governare efficacemente tutte le province imperiali, né di opporsi validamente all’aggressione dei re longobardi. Anche per questo il predecessore di Zaccaria, Gregorio III, aveva stabilito intese con i duchi di Spoleto e di Benevento, che, sebbene longobardi, erano ostili al rafforzamento dell’autorità regia, sperando col loro aiuto di poter tutelare almeno l’autonomia del Ducato romano. Zaccaria fu eletto papa proprio mentre il re Liutprando stava preparando una spedizione militare contro il Ducato romano. Egli diede subito prova di quella notevole spregiudicatezza che caratterizza le sue principali iniziative politiche; abbandonando l’intesa con i duchi longobardi offrì al re Liutprando sostegno proprio contro il duca ribelle Trasmondo di Spoleto, in cambio della pace e della restituzione dei quattro castelli di Amelia, Orte, Bomarzo e Blera, nella valle del Tevere, che il re aveva occupato l’anno precedente. Effettivamente, per disposizione di Zaccaria, l’esercito romano partecipò nel 742 alla spedizione del re contro Trasmondo, conclusa con la sottomissione e la deposizione del duca. L’autorità esercitata in quell’occasione da Zaccaria sull’esercito romano è una conferma del fatto che nell’ormai avanzata crisi del governo bizantino in Italia, il papa aveva assunto poteri politici in Roma, ed esercitava funzioni di governo nella città, d’intesa con il duca nominato dall’esarca. Dopo la sottomissione di Spoleto, poiché Liutprando tardava a consegnare i castelli promessi, Zaccaria non esitò a lasciare Roma per incontrarlo personalmente e raccogliere i frutti dell’accordo, facendo valere nei confronti del re tutto il prestigio morale e carismatico che gli derivava dalla figura di vicario del principe degli apostoli. L’incontro, come detto, avvenne a Terni probabilmente nell’estate del 742; Liutprando accolse il papa con grandi onori; le trattative durarono alcuni giorni, accompagnate da cerimonie religiose. Risultato fu la restituzione dei quattro castelli (considerati fondamentali nell’ottica della difesa di Roma da future minacce) al papa, che probabilmente li ricevette per conto dell’Impero; inoltre il re restituì “a san Pietro”, cioè propriamente alla Chiesa di Roma, vari patrimoni fondiari nella Pentapoli e nel Ducato romano, anch’essi recentemente occupati dai Longobardi. L’accordo fu sanzionato da una pace ventennale tra il re longobardo e il Ducato romano, i cui destini venivano così distinti da quelli delle altre province bizantine nell’Italia centro-settentrionale.
Nel 743 papa Zaccaria, dovette intervenire di nuovo con Liutprando, incontrandolo a Pavia, per distoglierlo dal proseguire la guerra contro l’esarcato di Ravenna, che i Longobardi volevano togliere ai Bizantini, operazione che fu portata a termine con successo dal papa. Stessa opera di mediazione e stesso successo l’ebbe con il duca del Friuli Rachis, re longobardo, che aveva invaso la “Pentapoli” (come già accennato regione marchigiana, comprendente le cinque città di Ancona, Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia) originariamente una provincia bizantina. Rachis (744-749) convinto dal papa, rinunciò all’impresa e si fece monaco nel 749, lasciando il regno al fratello Astolfo (749-756), il quale, però, occupò l’esarcato di Ravenna nel 751, giungendo a minacciare la stessa Roma (ma la storia proseguì con il successore di s. Zaccaria, papa Stefano II, il quale, nel 754, si sarebbe recato in Gallia per chiedere il supporto di Pipino il Breve. Nella città di Quierzy Pipino avrebbe successivamente promesso al papa che, una volta recuperati i territori conquistati dai Longobardi, li avrebbe donati alla Santa Sede; sarebbe stato questo l’atto di indirizzo che avrebbe condotto alla formalizzazione, sancita da Carlo Magno nel 774, dello Stato della Chiesa, destinato a durare, a parte brevi parentesi, fino al 1870). Riguardo l’Impero d’Oriente, ebbe rapporti burrascosi con l’imperatore Costantino V Copronimo (718-775), fautore della politica iconoclasta, riuscendo alla fine a renderlo favorevole alla Chiesa di Roma. Altro fatto importante del suo pontificato, fu la legittimazione della nuova dinastia carolingia in Francia, che sostituiva la decadente stirpe merovingia, nella persona del suo ultimo rappresentante Childerico III, per questo consacrò re dei Franchi Pipino il Breve (714-768), futuro padre di Carlo Magno; fu la prima investitura di un sovrano da parte di un pontefice. Fin dall’inizio del pontificato, egli dedicò, poi, grande attenzione all’opera di diffusione e organizzazione della Chiesa in Germania e nel Regno franco, condotta dall’evangelizzatore anglosassone Bonifacio, che Gregorio II aveva già costituito “vescovo della Germania”. Bonifacio si tenne continuamente in contatto con Zaccaria, informandolo sui progressi della sua attività e sollecitando istruzioni in materia di diritto ecclesiastico, di costume e di liturgia. Zaccaria fornì le istruzioni richieste; inviò la conferma papale ai nuovi vescovi creati in Germania da Bonifacio; su richiesta di questi trasmise il pallio anche agli arcivescovi di fresca istituzione di Sens, di Reims e di Rouen.
Relativamente a tale questione, convocò due Sinodi per Roma, nel 743 e 745, confermando la condanna pronunciata da s. Bonifacio contro i due eretici Adalberto e Clemente, che in Germania predicavano dottrine lesive dell’autorità ecclesiastica ed erano stati perciò incarcerati da Bonifacio, il quale, probabilmente, era colui che lo aveva messo in contatto con le autorità franche. Abile amministratore, Zaccaria, governò la Chiesa ed i territori che le appartenevano (i quali furono il primo nucleo dello Stato della Chiesa) per oltre dieci anni, riuscendo a controllare molto bene le milizie papali e l’amministrazione civile della città di Roma. In un certo senso, durante il suo pontificato maturarono le condizioni che avrebbero portato, con Papa Stefano II, alla nascita “de facto” dello Stato Pontificio (anche se si può tranquillamente parlare di vero e proprio potere temporale del papato, quanto meno, già a partire dal 752) . Degni di menzione sono, però anche altri aspetti degli anni di Papa Zaccaria: sotto il suo regno le terre vennero coltivate mediante colonie agricole bene organizzate; fu Egli a sviluppare il sistema della domus cultae, assegnazione di terre incolte ed abbandonate di proprietà della Chiesa, a fittavoli. Degno di menzione è il restauro, da egli ordinato del palazzo del Laterano, precedentemente danneggiato (palazzo ove Zaccaria riportò la sede papale), e l’abbellimento della chiesa di S. Maria ‘Antiqua’ ai piedi del Palatino, ove ancora si conserva il suo ritratto, eseguito quando era ancora vivente. Papa Zaccaria ultimo papa greco, fu, come già specificato, un uomo di vasta erudizione ed a lui si deve la traduzione dei ‘Dialoghi’ di s. Gregorio Magno, eseguita per i monasteri greci di Roma e d’Italia e che ebbe vasta diffusione in Oriente (Le lettere e i decreti di Zaccaria sono pubblicati in: Jacques Paul Migne, Patrologia latina, LXXXIX). Morì il 15 marzo 752 a Roma e venne sepolto in S. Pietro. È, come detto, celebrato come santo dalla Chiesa cattolica e la sua commemorazione liturgica ricorre il 15 marzo. A proposito di questo grande Pontefice nel Martirologio Romano si legge: «A Roma, san Zaccaria, papa, che arginò la veemenza dell’invasione longobarda, indicò ai Franchi quale fosse il giusto governo, dotò di chiese i popoli germanici e tenne salda l’unione con la Chiesa d’Oriente, governando la Chiesa di Dio con somma accortezza e prudenza».
Legata alla figura di Zaccaria è, invece, la scalata nelle gerarchie ecclesiastiche compiuta dal decimo papa di origine calabrese, tale Stefano III di Reggio Calabria, che, secondo una numerazione diversa da quella ufficiale non sarebbe il III Papa di nome Stefano, bensì il IV (la disputa, in merito, ebbe origine allorchè nel marzo del 752, venne eletto, quale successore di Zaccaria, un Papa di nome Stefano, il quale morì quattro giorni dopo, prima di essere consacrato. Pur essendo stato eletto, questo Papa, che avrebbe assunto il nome di Stefano II, non fu però considerato nella lista dei papi della Chiesa cattolica a causa della sua mancata consacrazione, requisito, allora, fondamentale contestualmente all’investitura papale: per questo la numerazione dei suoi successori riprende talvolta con lo stesso nome e numero. Così, nella numerazione “ufficiale”, colui che venne eletto dopo il “Papa non consacrato”, chiamandosi anch’Egli Stefano, è indicato col nome di Stefano II, anziché “III”, numero ordinale, questo, riservato, quindi, a Stefano di Reggio Calabria). In ogni Caso, Stefano III viene considerato il 94º papa della chiesa cattolica, dal 1º agosto 768 alla sua morte, nel 772. Egli Presumibilmente originario di Reggio (benchè il suo luogo di nascita risulti da diverse fonti, la Sicilia) Stefano nacque verso il 720, trasferendosi ancora fanciullo a Roma e venendo ben presto accolto da papa Gregorio III nel monastero benedettino di San Crisogono, dove, come ricorda il suo biografo, “clericus atque monachus est effectus” (ibid.). Dopo la morte del suddetto papa, Stefano fu chiamato ad assumere il ruolo di “cubicularius” del patriarchio lateranense dal nuovo pontefice, Zaccaria, il quale peraltro, poco tempo dopo, lo ordinò presbitero cardinale del titolo di S. Cecilia, uffici che, stando a quanto riferito dal Liber pontificalis, il giovane prelato cominciò a svolgere con tale competenza e discrezione da indurre i successori di Zaccaria, Stefano II e Paolo I, a mantenerlo in carica in entrambe le funzioni. È pertanto lecito ipotizzare che S., descritto come “vir strenuus et divinis Scripturis eruditus atque ecclesiasticis traditionibus inbutus et in earum observationibus constantissimus perseverator” (ibid.), sia ben presto diventato, se non altro in ragione delle capacità dimostrate nell’assolvimento dell’incarico di “cubicularius”, uno dei più autorevoli ed ascoltati esponenti della Curia romana. Del resto, la crescente stima goduta in quegli anni dal titolare di S. Cecilia è testimoniata anche dai delicati incarichi diplomatici che gli vennero affidati. S. infatti risulta quasi certamente identificabile con l’omonimo presbitero che il biografo di Stefano II colloca al seguito del pontefice durante l’importantissimo soggiorno in terra franca, culminato con gli incontri di Ponthion e di Quierzy (gennaio e Pasqua 754), che, com’è noto, diedero vita all’alleanza fra il papato e la monarchia carolingia, che avrebbe definitivamente dato respiro alla costituzione formale del Patrimonium Sancti Petri, come stato sovrano autonomo, decretata, come già spiegato, da Carlo Magno due decenni dopo. Alla deposizione dell’antipapa Costantino II, Stefano venne scelto per succedergli dal potente primicerio dei notai, Cristoforo. La sconfitta dell’antipapa Costantino era stata determinata dall’intervento degli armati longobardi del re Desiderio, sollecitato dal primicerio Cristoforo, guidati dal presbitero e rappresentante in Roma di Desiderio, Valdiperto.Tuttavia, una volta imprigionato Costantino, Valdiperto tentò di insediare un pontefice ligio a Desiderio nella persona del presbitero Filippo, cappellano del monastero di San Vito sull’Esquilino, che però fu tale solo un giorno, giusto il tempo per Cristoforo di chiedere ed ottenere il suo allontanamento, grazie anche all’atteggiamento minaccioso del popolo romano che dissuase i longobardi dall’insistere con il loro candidato. Filippo, che non era ancora stato consacrato né intronato, fu così costretto a ritornare al proprio monastero e venne quindi eletto papa il presbitero Stefano che aveva assistito papa Paolo I durante il trapasso e che fino ad allora si era tenuto in disparte rispetto ai conflitti fra le varie fazioni, e fu consacrato il 7 agosto 768. Appena insediato, Stefano inviò Sergio, figlio del primicerio Cristoforo, l’artefice della sua ascesa al trono pontificio, presso Pipino il Breve per comunicargli la sua elezione e chiedergli di inviare i vescovi franchi al sinodo che egli intendeva convocare per la primavera dell’anno successivo. Pipino però nel frattempo era morto ed il legato di papa Stefano III venne ricevuto dai suoi figli, Carlo e Carlomanno, i quali aderirono alle richieste di Stefano e inviarono al concilio tredici vescovi franchi.Il 12 aprile 769 Stefano aprì in Laterano un concilio in cui si svolse un processo all’antipapa Costantino che durò due giorni e che si concluse con il quasi linciaggio dell’imputato. Il concilio terminò con la distruzione di tutti gli atti ufficiali da egli compiuti e con la decisione che in futuro il papa avrebbe dovuto essere scelto solo fra i diaconi ed i “presbiteri cardinali”, mentre veniva ridimensionata fortemente la partecipazione dei laici alle elezioni del pontefice e venne confermata la pratica della devozione delle icone. Nel frattempo il comportamento di Desiderio aveva destato le ire di Stefano III, per il suo tergiversare sulla promessa fatta a papa Stefano II, in cambio del suo appoggio nell’ascesa al trono longobardo, di ritirarsi dai territori bizantini occupati a suo tempo da Liutprando (alcune città dell’Esarcato e della Pentapoli), in favore del papato. Così Stefano si rifiutò, nel 770, di approvare la nomina dell’arcivescovo di Ravenna, un fido di Desiderio. Stefano ebbe poi modo di allarmarsi, allorché apprese che stava per essere combinato un matrimonio fra Carlo Magno e la figlia di Desiderio, Desiderata (o Berterada). Preoccupato che l’alleanza fra i due potenti re potesse schiacciarlo, Stefano si oppose al matrimonio, ma inutilmente, poiché questo venne egualmente celebrato. In realtà egli credette di accorgersi che le liti tra i due fratelli franchi, Carlo Magno e Carlomanno, non gli avrebbero consentito di utilizzare i franchi contro Desiderio e quindi decise di riavvicinarsi a quest’ultimo, anche per cercare di affrancarsi dalla soffocante tutela dei potenti patrizi Cristoforo e Sergio, suo figlio. Prese quindi contatti segreti con l’esponente di Desiderio a Roma, Paolo Afiarta. Intanto Desiderio annunciò nel 769 di volersi recare in pellegrinaggio a Roma e così fece nel 771 ma, curiosamente, si portò dietro un esercito. Allorché Desiderio giunse sotto le mura romane, Cristoforo e Sergio allertarono il popolo chiamandolo alla difesa contro il probabile invasore, contando anche sull’appoggio del legato franco a Roma, Dodone. Stefano tuttavia riuscì a gettare sufficiente discredito sui due patrizi, al punto che il popolo romano, fomentato da Afiarta, si ribellò loro. Consideratisi ormai sconfitti, padre e figlio tentarono la fuga ma furono catturati dai fedeli di Afiarta che li fece eliminare.
A Carlo Magno non piacque tutta la vicenda e se ne lamentò, al che Stefano gli scrisse una lettera in cui, raccontando dettagliatamente quel che era successo, accusando i due patrizi “francofili” di essere, insieme a Dodone, alleati del demonio e di avere per questo voluto la sua morte, evitata solo con il provvidenziale intervento di Desiderio. Questo voltafaccia non piacque né a Carlo né a Desiderio, che si guardò bene dal resituire al papato le terre che aveva promesso. Stefano tentò quindi una ulteriore carta: cercare di separare franchi e longobardi e così fece spingendo per il ripudio di Ermengarda da parte di Carlo, cosa che puntualmente avvenne quasi in concomitanza del decesso di Carlomanno, che lasciò Carlo Magno erede dell’intero regno dei Franchi. Tuttavia, proprio quando una serie di inaspettati eventi, quali l’improvvisa rottura dell’alleanza fra il re longobardo e Carlo (autunno 771) e la morte di Carlomanno, era ormai sul punto di determinare un importante e decisivo mutamento degli equilibri politici, Stefano morì il 24 gennaio del 772, venendo sepolto in S. Pietro.
Oltre ai pontefici fin qui elencati, c’è ne poi uno, Papa Innocenzo XII (in latino: Innocentius PP. XII) che fu il duecentoquarantaduesimo papa della Chiesa cattolica dal 1691 alla sua morte, nel 1700. Questo Papa, nato Antonio Pignatelli di Spinazzola (13 marzo 1615 – Roma, 27 settembre 1700), e successore di Alessandro VIII, sarebbe nato a Spinazzola (comune posto al confine tra Lucania e Puglia), da Francesco, quarto marchese di Spinazzola e da Porzia Carafa, principessa di Minervino Murge, figlia di Fabrizio Carafa duca di Andria. Qual è dunque, il forte filo che unisce Innocenzo alla nostra Regione? Il legame di questo papa con la Calabria viene posto in evidenza da alcune fonti, secondo le quali egli fu battezzato nella chiesa di San Giovanni Battista di Regina di Lattarico, in provincia di Cosenza. Tuttavia, alcuni elementi, inducono a pensare che il Pignatelli a Regina non solo ricevette il battesimo, ma venne addirittura al mondo. La testimonianza di questa illustre nascita, alla data del 21 gennaio 1626 , è conservata nel registro parrocchiale di S. Giovanni di Regina, ove il futuro Successore di Pietro avrebbe, come detto, ricevuto il battesimo. Inequivocabile , a questo proposito, la notazione, segnata sul margine sinistro del foglio del registro, nella quale si legge: “Fu Pontefice con il nome di Innocenzo XII nel 1691. Fu un Pontefice savio e Santo, abolì il Nepotismo, con una celebre Costituzione, trasse dalla venerazione del Pontificato anche agli eretici. L’Arcip. Molinari di Acri ha notato la sua memoria”. Negli anni seguenti, il Pignatelli, calabrese di adozione, venne educato nel collegio dei gesuiti di Roma, iniziando una travolgente (almeno inizialmente) “carriera” ecclesiastica. A vent’anni divenne un funzionario della corte di papa Urbano VIII. Sotto i papi successivi servì come vicelegato di Urbino e poi come governatore di Perugia. Divenne – quindi – inquisitore nell’isola di Malta nel 1646. Due anni dopo fu governatore di Viterbo; nel 1652 nunzio apostolico a Firenze; nel 1660 in Polonia e – quindi – nel 1668 nella prestigiosa città di Vienna, dove svolse le sue mansioni con la consueta solerzia e soddisfazione dei suoi superiori. Tre anni dopo ne venne però richiamato e, da vescovo di Larissa quale era, il papa lo nominò vescovo di Lecce. Il rientro dalla capitale asburgica avvenne quindi senza alcuna promozione, alcun progresso di carriera, mentre di solito i nunzi a Vienna, Parigi e Madrid terminavano il loro mandato ottenendo la porpora cardinalizia. E dal momento che sia gli interessati sia le corti ospitanti si aspettavano tali promozioni, considerandole la conclusione naturale di missioni diplomatiche presso sovrani di “primaria importanza”, il fatto che Pignatelli ne fosse stato escluso venne da tutti interpretato come un segno di disfavore: ben presto si diffuse la voce che fosse stato richiamato “con la sola chiesa di Lecce” per “punirlo” dei suoi stretti rapporti con la fazione che nel conclave del 1670 si era opposta all’elezione di Emilio Altieri (Papa Clemente X, per la cui elezione erano state necessarie più di quaranta votazioni). In realtà la spiegazione è probabilmente da cercarsi altrove. Nel 1671 si era aperta a Roma una controversia giurisdizionale tra le autorità pontificie e il cardinale Federico d’Hassia, ambasciatore dell’imperatore, destinata a protrarsi nel tempo e ad alimentare le rivendicazioni del partito zelante per l’indipendenza della Santa Sede. Oltre a rifiutarsi di lasciare ispezionare i suoi bagagli dai doganieri di Roma, pretendendo di godere di franchigie che invece non gli spettavano, il cardinale d’Hassia esercitava infatti continue pesanti pressioni perché si arrivasse rapidamente alla nomina di nuovi cardinali e perché tra questi fossero inclusi alcuni soggetti indicati da Vienna. Il più accanito oppositore del cardinale d’Hassia era il cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri, “nipote” del papa, lo stesso che quattro anni dopo sarebbe entrato in un conflitto molto più violento, ma esattamente sulle stesse materie, con tutti gli ambasciatori stranieri a Roma e in particolare con d’Estrées, rappresentante di Luigi XIV. Anche in quella occasione, Paluzzi Altieri si mostrò molto deciso nel rivendicare i diritti doganali dello Stato pontificio contro le franchigie pretese dagli ambasciatori e nel difendere la piena autonomia del papa in materia di nomine cardinalizie (e il fatto che la documentazione relativa alle due controversie risulti sempre raccolta insieme, nonostante il lasso di tempo che le separa, dimostra che anche i contemporanei mettevano i due casi uno in relazione con l’altro). Per contrastare le pressioni dei sovrani cattolici, nel 1675 egli fece quindi promuovere in tutta fretta i nunzi di primo grado e alcuni altri personaggi, come il maggiordomo dei Sacri Palazzi Apostolici, pur di coprire tutti i posti vacanti e vanificare ogni pretesa dei principi stranieri. È probabile dunque che il cardinal nipote volesse dare un segnale di fermezza al cardinale d’Hassia, che si era reso “insoffribile” per le sue “maniere imperiose” alla Corte di Roma, e all’imperatore, che pretendeva il cappello cardinalizio per un prelato nominato da lui. E richiamare il nunzio senza promuoverlo era senz’altro un segnale forte, visto che i sovrani tenevano molto a che i nunzi presso di loro ottenessero il titolo cardinalizio, considerandolo un omaggio fatto alla loro persona per il tramite di un funzionario che aveva servito alla loro corte. Ottenuto lo scopo di dimostrare fermezza nei confronti dell’imperatore, Paluzzi Altieri avrebbe poi potuto promuovere il povero Pignatelli. E invece la sua carriera continuò a segnare il passo. Nel 1673 venne nominato segretario della Congregazione dei Vescovi e dei Regolari, e nel 1675 maestro di camera. Quest’ultima era una carica molto ambita, perché metteva il prelato che la occupava a diretto e quotidiano contatto con il papa e con i personaggi che passavano dalla sua anticamera, e offriva quindi la possibilità di perorare la propria causa senza dare nell’occhio e perciò senza suscitare l’opposizione dei concorrenti. Ma Pignatelli dovette aspettare altri sei anni prima di essere finalmente promosso al cardinalato, il 1° settembre del 1681; l’anno dopo il Cardinale fu nominato arcivescovo di Faenza e legato di Bologna e, nel 1687, arcivescovo di Napoli. La sua azione a capo della Chiesa napoletana fu segnata da molti dei tratti che si erano già manifestati, tra l’altro, durante la legazione di Bologna: “senza tentazioni episcopaliste, garante dell’autonomia della diocesi nell’obbedienza al papa, l’Arcivescovo napoletano rivendica in più occasioni la sua autorità sia contro le forze ecclesiastiche locali, ferme nel difendere e ampliare le loro competenze e i privilegi, sia contro il potere politico, sia contro la stessa curia romana” (E. Chiosi, p. 101). Arrivato a Napoli al momento dell’apertura del processo agli ateisti e dell’attacco aperto al quietismo, non potè dimenticare di essere uomo di Curia, e tuttavia il suo atteggiamento rimase essenzialmente moderato e persino amichevole nei confronti di alcuni religiosi accusati di simpatie quietiste. Alla morte di Alessandro VIII, avvenuta il 1º febbraio1691, il conclave si protrasse per cinque mesi, ed egli fu eletto il 12 luglio, come candidato di compromesso tra i cardinali francesi e quelli del Sacro Romano Impero. Immediatamente dopo la sua elevazione alla tiara pontificia, prese posizione contro il nepotismo, che troppo e troppo a lungo aveva costituito uno dei grandi scandali della Chiesa; la bolla Romanum decet Pontificem, emanata nel 1692, proibiva ai Papi in qualsiasi momento, di concedere proprietà, incarichi o rendite a qualsiasi parente; inoltre, solo un parente poteva essere innalzato al cardinalato. In tutto il suo pontificato rimase fedele a questo principio; nessun suo familiare ebbe incarichi in Vaticano e negò perfino la porpora del cardinalato all’arcivescovo di Taranto, perché era suo parente. La bolla appena citata costituisce il provvedimento sicuramente più noto e celebrato di tutto il pontificato di Innocenzo; con essa Papa Pignatelli dava finalmente attuazione a un progetto a cui avevano a lungo lavorato papa Odescalchi e il suo auditore Giovanni Battista De Luca, e che entrambi avevano dovuto accantonare per l’opposizione irriducibile della Curia. All’origine del progetto presentato nel 1680 c’era sicuramente più di una motivazione. Il desiderio di porre finalmente termine a una pratica altamente sospetta di simonia, riformando i costumi del clero, conviveva con la volontà di difendere l’onore della Curia romana, eliminando alla radice quegli abusi che più facilmente potevano dare corpo alla polemica anticattolica e antiromana (la bolla di abolizione della venalità degli uffici camerali, del 10 novembre 1692, dichiarava testualmente di voler togliere ogni occasione “contra Romanam Curiam obloquendi et oblatrandi invidis et infensis eius detractoribus”). Ai motivi morali e religiosi si aggiungevano però, molto probabilmente, anche motivi politici. L’allontanamento dei parenti del papa dalle cariche di governo presenta infatti molti punti di contatto con i provvedimenti adottati da Mazzarino e Luigi XIV nel riformare il Consiglio del re, e l’argomentazione addotta per giustificare la bolla del 23 ottobre 1692 contro la venalità dei chiericati di Camera si richiamava apertamente alla necessità di promuovere solo “quelli che hanno la marca del merito” riservando tali uffici a persone dotate di “vitae et morum integritate”, “literarum scientia” e “rerum humanarum experientia” cioè a magistrati savi e prudenti in grado di gestire al meglio la cosa pubblica. Sono evidenti in questo testo le ascendenze ciceroniane, che rimandano immediatamente alla cultura politica di De Luca e, attraverso di lui, ai Six livres de la République di Jean Bodin. In due scritti del 1680, La Nemicitia tra la Corte e il Principato e Il Principe cristiano pratico, De Luca aveva delineato in maniera molto chiara il programma di governo che riteneva il più adatto a un sovrano cattolico: “la politica buona, da vero e buon Principe, quale in ciò si distingue dal tiranno perché principalmente riflette al bene pubblico de sudditi, che antepone al proprio e privato” consiste anche nel “sopprim[ere] le cariche inutili, e non necessarie, aboli[re] l’uso de donativi, delle corruttele e delle venalità, e to[gliere] le abusive introduzioni di tante franchiggie”.
Il principe deve mettere molta cura nella scelta dei suoi magistrati – scrive ancora de Luca – e osservare la “dovuta graduazione, deputando i giovani, e gli inesperti […] alle cariche minori, dalle quali gradatamente facciano il passaggio alle maggiori […] è anche necessario, che il Principe come condottiero […] gli tenga disciplinati, havendo le redini nelle mani”. Inoltre il sovrano deve “astenersi affatto dalla venalità, e dal ricevere perciò donativi, o permettere che da suoi familiari si ricevano […] e quello il quale non aborre la corruttela attiva, non aborrirà la passiva, e facilmente ammetterà che gl’interessati camminino seco per quell’istessa via fangosa, e sporca, per la quale egli ha proceduto”. Infine, anche quando non è a ciò obbligato da una qualche forma di governo misto, è bene che il principe si regoli “con consiglio di quei ministri, & officiali, i quali sono a ciò destinati, e sono informati degl’interessi del Principato, e non operi di propria testa, overo col consiglio de’ suoi inesperti familiari”. Ma non era solo da De Luca che potevano venire le sollecitazioni a prendere provvedimenti contro la pratica di associare i parenti del papa al governo della cosa pubblica. Il segretario di Stato di Innocenzo, cardinale Spada, era stato nunzio a Parigi tra il 1674 e il 1675 e aveva potuto constatare personalmente quale fosse lo stile di governo di Luigi XIV. Dal canto loro, a testimonianza di quanto fosse attiva la circolazione delle notizie tra le corti europee, i provvedimenti adottati da Innocenzo suscitarono un vivo interesse nei diversi paesi a nord delle Alpi, come testimonia un dispaccio dell’ambasciatore Domenico Contarini, il quale scrive: “Ogn’uno sta con apprensione, che […] non s’acquieti l’animo della Santità Sua ricevendo gl’applausi delle sue attioni da buoni, e risonando dalle parti più remote; ultimamente essendosi rallegrato d’intendere tradotte le Bolle del Nepotismo e della soppressione della venalità delle cariche in più lingue oltramontane”. Alle ragioni morali e politiche, che militavano a favore dell’abolizione del nepotismo, si aggiungevano infine i motivi finanziari. La bozza di bolla presentata da Innocenzo XI ai cardinali nel 1680 faceva esplicito riferimento allo stato disastroso delle finanze pontificie e De Luca, ne La Nemicitia tra la Corte e il Principato, paragonava la prima a una “sanguisuga, che per ingrassarsi, e mantenersi succhia e tira a se tutto il sangue del corpo”. Dieci anni dopo, le condizioni dell’erario pontificio non erano certo migliorate e anzi, nel breve pontificato di Alessandro VIII, gli eccessi nepotistici avevano raggiunto livelli tali che nel 1692 il provvedimento poté finalmente essere approvato, anche se con molte resistenze e sotto un “titolo” sufficientemente ambiguo, il quale più che vietare in maniera assoluta sembrava prescrivere “moderazione” (“Praescribitur moderatio servanda a Pontefice”). E pochi mesi dopo, fu pure possibile emanare una bolla che non solo aboliva la venalità dei chiericati di Camera ma impegnava il pontefice a restituire agli acquirenti le somme che avevano sborsato per aggiudicarseli. Oltre alla bolla contro il nepotismo, l’interesse per il buon funzionamento della giustizia e l’attenzione per l’ordinata amministrazione della carità sono i tratti che probabilmente meglio caratterizzano il pontificato di Antonio Pignatelli. Intorno al problema della giustizia le autorità pontificie e i giuristi loro consiglieri stavano lavorando da tempo. Una bolla di riforma dei tribunali era stata emanata nel 1612, ad opera di Paolo V, deciso a migliorare l’efficienza della giustizia attraverso una più esatta definizione delle mansioni e delle competenze di tutto il personale dei tribunali, di ogni ordine e grado, dai giudici fino ai cancellieri e ai cursori. A questo provvedimento era seguito un lungo periodo di relativa disattenzione, finché, nel 1676, Innocenzo XI non aveva manifestato la volontà di riprendere in mano la materia, nominando una nuova Congregazione per la Riforma dei Tribunali e affidandone la guida a De Luca. L’attività della Congregazione, che di nuovo interveniva a disciplinare i compiti e le pretese del personale di ogni ordine e grado dei tribunali, non rimase confinata al piano teorico, ma trovò applicazione pratica, andando ad incidere concretamente sulla procedura adottata dalle varie corti di giustizia (lo testimoniano gli archivi del Tribunale dell'”Auditor Camerae”, che mostrano sostanziali innovazioni a partire dal 1677). Il 28 luglio del 1691, a due settimane dall’elezione, anche Innocenzo mostrò di volersi occupare della questione. In quella data fu infatti “affissa una notificazione che chi voleva udienza da Nostro Signore si portasse il lunedì avanti Sua Santità, che l’haverebbe havuta”. Da quel momento, e per un lasso di tempo di circa quattro anni, il Papa tenne effettivamente udienza pubblica ogni quindici giorni, ricevendo e ascoltando i sudditi che chiedevano giustizia. In questa maniera egli si presentava al popolo nelle vesti del “sovrano giustiziere”, che siedeva personalmente a rendere giustizia, in maniera “immediata”, vale a dire rapida e contemporaneamente svincolata dalle consuete mediazioni procedurali di avvocati, giudici, cancellieri, imposte dal ricorso a un tribunale. Così egli incarnava e rendeva visibile quello che era forse l’attributo fondamentale della sovranità medievale e moderna, e il valore della sua azione andava ben al di là degli effetti pratici della medesima, come emerge chiaramente dai commenti di alcuni osservatori. La disponibilità del Papa – scrive l’ambasciatore veneziano Contarini – aveva suscitato grandi speranze in coloro che avevano cause pendenti e non riuscivano a vederne la fine; ben presto, però, quegli stessi che si erano rivolti a lui si erano accorti a proprie spese che “non se conseguiva l’intento, mentre non si poteva ottenere alcuna gratia, né mai si spediva alcuna causa, ma tutto si rimetteva alle congregationi et ai tribunali”. E tuttavia “questo pubblico ricorso portava un gran freno a tutti li ministri e giudici, et anco alli baroni e nobili, mentre era troppo facile la strada d’avvicinarsi all’orecchio del Pontefice e di scuoprirli quello che in altri tempi era impedito o dall’autorità o dall’astuzia di chi s’approssima al pontefice, in questa guisa vivendo ognuno con moderatione et esercitandosi dai tribunali la più severa giustizia”. Per il resto, la politica giudiziaria di Innocenzo si presentava come una continuazione di quella adottata dal suo predecessore. Così nell’agosto del 1692 il papa fece pubblicare nuovi decreti della Congregazione per la Riforma dei Tribunali, che questa volta miravano a stabilire le precise competenze di ogni corte, per mettere fine ai conflitti di giurisdizione. Come le precedenti, anche questa Congregazione degli anni Novanta era composta da “esperti”, cioè da magistrati dei principali tribunali romani, il “cursus honorum” dei quali prevedeva in genere il passaggio da una magistratura all’altra: tutti erano quindi bene al corrente dei problemi che ogni singolo tribunale doveva affrontare. Ne facevano parte Prospero Bottini, avvocato fiscale, Jacques Emerix, avvocato di Rota, Mathieu Ysoré de Hérault, Federico Caccia e Giuseppe Molines, auditori di Rota, Giovan Domenico Tomato, luogotenente dell'”Auditor Camerae”, Curzio Origo, votante della Segnatura di Giustizia, Giuseppe Sagripanti, sottodatario, Ferdinando Nuzzi, commissario della Reverenda Camera apostolica, Ansaldo Ansaldi, “auditor Sanctissimi”, Fatinello Fatinelli, primo collaterale del Tribunale del Senatore, e Giovan Domenico Rainaldi, luogotenente criminale del cardinale vicario: tutti i tribunali primari, quelli che non sarebbero stati colpiti dal decreto di soppressione, vi erano rappresentati. E pochi giorni dopo, la Congregazione suggerì appunto l’emanazione di un decreto per la soppressione di quella pletora di corti minori su cui si erano fino allora fondati i privilegi giurisdizionali di vari corpi sociali, a cominciare dalle “nazioni” e dalle arti, suggerimento che il papa accolse nella bolla Romanus Pontifex del 17 settembre 1692. In poche parole, la sua azione non fu affatto blanda: Egli allo scopo di contrastare la compravendita di cariche presso la Camera apostolica, introdusse alla sua corte uno stile di vita più semplice e più economico. Egli stesso disse “i poveri sono i miei nipoti”, paragonando il nepotismo di molti tra i suoi predecessori con la sua politica di beneficenza pubblica. Nel 1694 istituì la Congregazione per la disciplina e la riforma degli Ordini Regolari, con l’intento di riformare verso una maggiore spiritualità la Chiesa. Innocenzo fece diverse riforme necessarie e molto utili negli Stati della Chiesa, e – per la migliore amministrazione della giustizia – fece erigere il Forum Innocentianum. Nei rapporti con le potenze cattoliche, come tutti i suoi immediati predecessori, anche Innocenzo dovette presto confrontarsi con il problema del giansenismo. La bolla contro Giansenio, emanata da Alessandro VII nel 1656, e il formulario sul quale dovevano giurare gli ordinandi al sacerdozio, approvato dallo stesso papa nel 1665, imponevano il riconoscimento di “fede divina” del “duplice fatto”, cioè della falsità delle proposizioni di Giansenio e della loro presenza nell’Augustinus, e quindi il loro ripudio non solo in senso generale eretico, ma anche specificamente, vale a dire come presenti nel libro e secondo le intenzioni dell’autore. La forte opposizione che tale testo non aveva mancato di suscitare, aveva tuttavia fatto sì che il formulario effettivamente da sottoscrivere contenesse significative restrizioni. La questione poteva dirsi sopita, ma non certo risolta. Essa si riaccese all’inizio del 1692, quando l’arcivescovo antigiansenista di Malines, nei Paesi Bassi spagnoli, provò a forzare la mano, non solo riproponendo il testo integrale del formulario di Alessandro VII, ma addirittura ritoccandolo, in modo da rendere ancora più feroce la condanna contro il giansenismo. Di fronte alle proteste dell’Università di Lovanio, il papa chiese consiglio ai suoi teologi. Né gli assessori del Sant’Uffizio, la cui composizione era radicalmente cambiata rispetto ai tempi di Alessandro VII, né i cardinali romani risultavano essere compattamente schierati su posizioni oltranziste. Il parere moderato del cardinale Girolamo Casanate finì quindi col prevalere e un decreto del 1694 prescrisse il ritorno al più prudente testo originario e il giuramento del formulario alessandrino nel suo solo “senso ovvio”, imponendo al contempo alle parti di osservare il silenzio perpetuo sulla questione. L’entourage del papa era d’altronde attraversato da correnti rigoriste che coinvolgevano la stessa Compagnia di Gesù. Già da alcuni anni il generale della Compagnia, Tyrso González, aveva permesso a tutti i suoi padri di prendere posizione a favore di una morale più severa e, di fronte all’inerzia da essi dimostrata, aveva deciso di prendere personalmente in mano la penna e di scrivere un trattato in materia. Il predicatore dei Palazzi Apostolici, Paolo Segneri sr, aveva cercato di opporsi a questa iniziativa del suo generale, che suscitava freddezza se non ostilità tra la maggioranza dei confratelli. Ma una Congregazione di cinque cardinali, nominata nel 1694 proprio per esaminare il suo caso, si pronunciò a favore di González, il quale godeva tra l’altro dell’appoggio di Vienna e di Madrid. Un processo analogo si delineò a proposito della questione dei “riti cinesi”.
Nel 1693 la denuncia contro il sincretismo del culto di Confucio e degli antenati defunti, inviata a Roma da Charles Maigrot, membro del Seminario delle Missioni di Parigi e vicario apostolico di Fukien, riaprì la controversia (che era stata temporaneamente risolta, in senso permissivo, da Alessandro VII) sullo stile dell’attività missionaria svolta in Cina dalla Compagnia di Gesù, cui si imputava di operare un’indebita confusione tra cristianesimo e monoteismo confuciano. Dietro la controversia dottrinaria si celavano rivalità sulle missioni tra i Gesuiti e gli Ordini mendicanti, nonché tensioni giurisdizionali tra i vicari apostolici e il “padroado” portoghese e, anche in questo caso, Innocenzo evitò di schierarsi apertamente: il breve di risposta che venne inviato a Maigrot era estremamente elogiativo nei suoi confronti, e tuttavia il papa non mancava di esortare alla concordia, mentre tentava di trovare una soluzione alla controversia affidandone l’esame a una Congregazione. Quando quest’ultima si sciolse, senza essere riuscita a trovare una soluzione, Innocenzo ne nominò un’altra, che tuttavia si spaccò subito in due. Di lì a poco lo schieramento antigesuitico segnò un punto a proprio favore, ottenendo la condanna dei “riti cinesi” da parte della Sorbona. Ma poiché questo avvenne nel 1700, proprio alla morte del Papa, il problema rimase aperto e furono i successori di Innocenzo a dovergli trovare una soluzione. In politica estera, il suo pontificato contrastò con quello di una serie di suoi predecessori, per la sua inclinazione verso la Francia invece che la Germania. L’ostilità più forte all’elezione di Antonio Pignatelli era venuta dal “partito francese”, che vedeva in lui un suddito del re di Spagna e dunque un potenziale nemico. Ma, smentendo i timori dei Francesi, uno dei primi atti compiuti dal nuovo papa fu quello di rivolgersi allo stesso Luigi XIV, annunciandogli che avrebbe volentieri affrontato e risolto la questione dei vescovati di Francia, vacanti in seguito alle tensioni causate dall’affare della “régale” e soprattutto dalla Dichiarazione dei Quattro articoli del clero gallicano, approvati nel 1682. Dopo le asprezze di Innocenzo XI, l’atteggiamento di papa Pignatelli appariva molto conciliante: la Santa Sede non arrivava a chiedere una ritrattazione della Dichiarazione, ma si sarebbe accontentata di una presa di distanza dalla medesima, vale a dire di un ordine del re che imponesse di non dare esecuzione all’editto del 1682. Di fronte all’atteggiamento altrettanto conciliante della corte di Francia, tra il 1692 e il 1693 il Papa spedì le bolle di nomina a tutti i vescovi che ne avevano fatto domanda, compresi coloro che erano stati tra i sottoscrittori dei Quattro articoli, ponendo così fine a questo motivo di attrito. Ma se tale questione era chiusa, restava da risolvere l’affare della “régale”. Tuttavia quest’ultima faccenda sollevava spinosi problemi internazionali, perché i maggiori poteri giurisdizionali che conferiva al re di Francia erano percepiti come un indebito favoritismo della Santa Sede nei confronti di una delle potenze cattoliche in guerra. L’indulto di nomina all’arcivescovato di Cambrai, città conquistata dalla Francia nel corso della guerra d’Olanda, suscitò così le risentite proteste dell’imperatore e costrinse il Papa a rinviare ogni ulteriore iniziativa, senza tuttavia che questo alterasse le buone relazioni tra Parigi e Roma. In questo contesto di pacificazione con Luigi XIV vanno dunque letti i contrasti con l’imperatore, dovuti anche alle intemperanze degli ambasciatori cesarei a Roma. Nel 1692, quando tra Roma e Madrid si erano avuti dissapori a proposito dell’Inquisizione di Napoli, l’ambasciatore Anton Liechtenstein si era infatti schierato con la Spagna e nel 1699, per una questione di precedenze, il suo successore Georg Adam Martinitz aveva scatenato una vera e propria crisi diplomatica tra la Santa Sede e la corte di Vienna. Ma la divergenza più profonda si ebbe sulla questione della successione spagnola. Quando il Consiglio di Stato spagnolo suggerì a Carlo II d’Asburgo di indicare il suo successore in Filippo d’Angiò, Innocenzo, al quale il re si era rivolto in cerca di approvazione, si dichiarò d’accordo con quella scelta. E tuttavia non assistette alla successione, perché morì il 27 settembre 1700, precedendo di poco il re di Spagna. Non fu, insomma, estraneo alle vicende relative alla questione della successione spagnola, morendo, in pratica, alla vigilia del conflitto in cui sfociò l’annosa controversia. Dopo gli aspri conflitti con la Francia, che avevano caratterizzato il pontificato di Innocenzo XI, la politica di papa Pignatelli si rivelò così di segno opposto. Una politica papale, che costituì un tassello fondamentale nel complesso mosaico della realtà europea del tempo.
A margine di questa lunga cavalcata nella grande storia dei Papi calabresi, appare doveroso fare menzione di un personaggio particolare, che ha avuto un ruolo particolare, anzi, scomodo nella storia della Chiesa, concludendo in modo tragico la sua spericolata e sfortunata parabola umana ed ecclesiastica; stiamo parlando di Giovanni Filagato un vescovo italiano, calabrese, che ascese al soglio pontificio, ma che, secondo i canoni della Chiesa, non fu Papa. Ad egli, infatti, la Chiesa riconosce solo il titolo di Vescovo, mentre la Storia lo identifica con un altro appellativo: antipapa, ovvero, colui che è eletto papa non canonicamente ed è quindi competitore del vero e legittimo papa, del quale usurpa l’autorità. Ebbene, Giovanni Filigato da Rossano, ebbe tale caratteristiche, fu un antipapa, dal 997 al 998, passato alla storia col nome di Giovanni XVI. Nato a Rossano, nel territorio bizantino della penisola italiana, di origine greca (il cognome Philàgathos è tipicamente greco), fu cappellano di Teofano, la consorte dell’imperatore Ottone II che era giunta da Costantinopoli. In due occasioni Giovanni svolse le funzioni di cancelliere imperiale per Ottone II, nel 980-982 quando fu nominato abate di Nonantola nel 991-992. Durante i suoi viaggi in Italia fu nominato nel 987 tutore del figlio dell’imperatore Ottone, che aveva al tempo solo sette anni. Su suggerimento dell’imperatrice fu poi nel 989 nominato abusivamente vescovo di Piacenza, città a cui donò le reliquie di San Cipriano e Santa Giustina. Successivamente fu inviato a Costantinopoli per accompagnare una principessa bizantina per il giovane Ottone. Dopo la morte dell’imperatore, il figlio Ottone III venne in aiuto di papa Giovanni XV nel 996, per sedare la ribellione di una fazione guidata dall’aristocratico romano Giovanni Crescenzi II, detto “il Nomentano”, figlio di Crescenzio II (†984) e fratello di Crescenzio III (†1020). Ottone si fermò a Pavia per essere acclamato re d’Italia e non riuscì a raggiungere Roma prima della morte del papa. Una volta a Roma, Ottone organizzò l’elezione del cugino Bruno di Carinzia come Papa Gregorio V ed il nuovo papa incoronò Ottone imperatore il 21 maggio 996. Il giorno seguente, in occasione di una solenne assemblea sinodale dei prelati giunti al seguito di Ottone e di tutto il clero romano, fu sancito, tra l’altro, un decreto di esilio per Crescenzio Nomentano, reo di gravi reati nei confronti del papa defunto, ma il nuovo pontefice, forse per ingraziarsi il favore dei proceres romani, diffidenti e timorosi nei riguardi della nuova e rafforzata egemonia germanica che si andava profilando sulla città, commise la leggerezza politica di concedergli la grazia.
Fu un errore che si rivelò fatale. Infatti, ripartito l’imperatore per la Germania verso la fine dell’estate, Crescenzio, tradendo il giuramento appena fatto a Ottone, a seguito di una rivolta da lui capeggiata (26 settembre) si reinsediò nella pienezza dei suoi poteri e costrinse Gregorio V a una fuga precipitosa verso il Norditalia dove, nel sicuro asilo di Pavia, avrebbe trascorso i mesi successivi. Nell’antica capitale del Regnum, nel febbraio 997, il pontefice, confidando nel prossimo intervento dell’imperatore, presiedette un sinodo in cui, tra le altre importanti questioni trattate, fu promulgato l’anatema contro Crescenzio. Fu probabilmente anche per ingraziarsi (ovvero pensando di rinsaldare) i favori presunti o forse promessi da Costantinopoli che Crescenzio, intorno al mese di febbraio del 997, probabilmente in accordo con il summenzionato ambasciatore bizantino Leone (testimone di quelle vicende e sostenitore di una scelta che da lì a poco dopo avrebbe sconfessato rivelando una viscerale antipatia e un’avversione quantomeno sospetta per il proprio candidato ormai sconfitto), convinse (ovvero, secondo la voce isolata di qualche seriore cronista, costrinse) il Filagato, in quel momento rientrato a Roma, a lasciarsi insediare sul trono papale, di fatto vacante per l’assenza dell’esule Gregorio V. Si è molto discusso sulle ragioni che spinsero il Filagato a compiere un passo così azzardato, che implicava oltretutto il tradimento della fiducia di un sovrano e con lui di una dinastia grazie alla quale aveva potuto godere di inopinati favori per più di due decenni. Sembra da escludere l’ipotesi poco credibile e in ogni caso indimostrabile secondo cui il Filagato, forse risentitosi per la nomina in sua assenza di Bruno di Carinzia, la cui linea d’azione papale lasciava nel frattempo trapelare più di un segno di tensione con il cugino, poteva pensare in questo modo di cattivarsi nonostante tutto le simpatie di Ottone III. Altrettanto improbabile, pur conservando una parvenza di verosimiglianza nell’inserzione implicita di quella scelta nel quadro delle complesse relazioni diplomatiche tra i due Imperi e dell’ovvio atteggiamento filobizantino di Giovanni, appare l’affermazione del cronista milanese Arnolfo, secondo cui il Filagato “Romani decus imperii astute in Grecos transfere temptasset” (ed. Zey, p. 133; ed. Scaravelli, p. 70). Si è discusso, inoltre, di un eventuale significato tecnico dell’espressione del cronista Giovanni Diacono (p. 154), secondo la quale il Filagato non temette di occupare la sede apostolica “contra imperiale decretum”: ma è oggettivamente impossibile stabilire se qui il quasi coevo cronista si riferisse, come sembra in ogni caso poco probabile, alle note prescrizioni sulla procedura di conferma imperiale dei pontefici previste dal privilegium ottoniano del 962 o intendesse alludere a un esplicito e specifico pronunciamento di Ottone III direttamente sollecitato dal Filagato alla ratifica di una propria eventuale candidatura al soglio papale. L’ipotesi meno lontana dal vero sembra dunque essere quella che sottolinei la convergenza oggettiva tra le ambizioni comunque motivate del Filagato e, soprattutto, l’interesse e la speranza di Crescenzio di poter ottenere con quella mossa un’ulteriore garanzia all’indispensabile quanto improbabile sostegno di Bisanzio, o forse, addirittura – pensando che la nomina papale dell’antico padrino non dovesse in fondo dispiacere al figlioccio Ottone -, di avviare le premesse a una politica di equilibrio mediterraneo tra i due imperi, politica di cui egli, con il nuovo pontefice, poteva farsi in qualche modo garante. Forse già alla fine di quel mese giunse, prevedibile, la scomunica di Gregorio V, forte dell’appoggio di quasi tutto l’episcopato italico, tedesco e francese. Di lì a qualche tempo (7 luglio), scontata la deposizione di Giovanni, il papa avrebbe concesso al metropolita Giovanni di Ravenna la facoltà di spogliare dell’indebito titolo arcivescovile la sede piacentina e ricollocarla sotto la legittima giurisdizione ravennate. L’imperatore, come sembra di poter dedurre dai successivi eventi, prese sin da subito posizione a favore di Gregorio V, tant’è che già dall’estate seguente si hanno validi indizi di un tentativo da parte di Giovanni di rendere nota la propria disponibilità a trattare e forse a desistere dall’usurpazione stessa. In particolare, da una breve lettera attribuibile al vescovo imperiale Willigis di Magonza oppure al cancelliere per l’Italia Eriberto, indirizzata nel luglio-agosto 997 a Gerberto di Reims, futuro papa con il nome di Silvestro II, e conservatasi nella raccolta epistolare di quest’ultimo, sappiamo che l’esercito di Ottone non aveva ancora deciso se dirigersi più a Nord, per combattere le “Scytharum gentes” ovvero verso l’Italia, per sottomettere la ribellione di Crescenzio e di G., che sembrava disposto a sottomettersi. Una scelta verso cui tentò di piegarlo anche un appello accorato del concittadino e antico maestro Nilo di Grottaferrata, e alla quale in ogni caso dovette inclinarlo l’inevitabile presa d’atto del suo isolamento e della fragilità della sua posizione; fragilità che viene pure indirettamente attestata dalla totale assenza di una superstite produzione documentaria relativa alla sua presenza in sordina a Roma, malgrado l’interessato appoggio delle forze locali legate a Crescenzio Nomentano. Un’assenza documentaria che non sembra comunque nemmeno parzialmente giustificabile per la scontata damnatio memoriae curiale seguita alle vicende della sua drammatica destituzione. L’unica sia pur labile traccia della parentesi papale di Giovanni è legata all’inventio da lui promossa, “in basilica S. Rufinae”, delle reliquie di s. Giustina d’Antiochia, una martire di età dioclezianea contitolare da qualche tempo della diocesi piacentina, ritrovamento di cui testimonianza indiretta viene fornita dal racconto della Translatio (Bibliotheca hagiographica Latina, n. 2054), un paludato testo liturgico redatto negli anni immediatamente seguenti, e che tradisce, nei toni e nel linguaggio, una forte simpatia per la figura di Giovanni XVI. Vi si narra di un drappello di piacentini che si reca a Roma, presso il Filagato imprigionato ma ancor detentore del prezioso scrigno, per chiederglielo in dono. Va sottolineato il fatto che la delegazione piacentina incontrò l’antipapa soltanto dopo la sua destituzione e durante la successiva prigionia, e perciò non prima del marzo-aprile del 998: i colloqui avvenuti con l’ex arcivescovo, qui tuttavia presentato come ancor sofferente per le torture subite e ridotto a una truce maschera deforme, sembrerebbero pertanto documentare la possibilità che le sue mutilazioni siano state meno gravi di quanto non appaia, come vedremo, da altre fonti coeve, se non altro perché la lingua non poteva essergli stata tagliata, come del resto si evince anche dalla sobria ma precisa testimonianza di Rodolfo il Glabro (pp. 30 s.), e poi da quella più polemica di Arnolfo (ed. Zey, p. 135; ed. Scaravelli, p. 72).
L’esercito di Ottone III, pronto a muovere verso Roma, si radunò lentamente a Pavia tra il Natale 997 e le prime settimane del 998. Verso la metà di febbraio un’imponente armata che raccoglieva forze da tutte le province germaniche e con a capo, fiancheggianti il sovrano e il legittimo pontefice, alcuni tra i più valenti e prestigiosi principi dell’Impero, mosse da Ravenna verso una Roma quasi deserta, che facilmente cadde, dopo qualche scaramuccia, il 20 di quel mese. Poco prima, infatti, informato dell’imminente arrivo e temendo la prevedibile rappresaglia dell’imperatore, Giovanni aveva trovato rifugio in una torre fortificata della Campania romana, Torre Astura, da dove, disperando di quel soccorso che nessuna parte poteva più offrigli, tentò probabilmente di fuggire verso il Suditalia o addirittura verso Bisanzio, mentre Crescenzio Nomentano si asserragliava in Castel Sant’Angelo, dove per quasi due mesi, prima di capitolare e di venire infine crudelmente giustiziato, avrebbe offerto una fiera e tenace resistenza agli assalti delle macchine da guerra delle truppe tedesche. Giovanni venne catturato agevolmente da un gruppo di armati, al comando del conte Bertoldo di Brisgovia, i quali – come suggerisce, unica tra le fonti a nostra disposizione, l’annalista sassone di Quedlinburg – temendo che se l’avessero consegnato illeso all’imperatore questi l’avrebbe lasciato impunito, lo mutilarono orribilmente secondo un macabro rituale, tagliandogli il naso, le orecchie e cavandogli gli occhi, amputandogli, forse, anche le mani e la lingua, per poi farlo prigioniero in un monastero romano. A partire da questo momento non è agevole stabilire una cronologia dettagliata e un ordine rigoroso di successione degli eventi che seguirono. Probabilmente tra la fine di marzo e gli inizi di aprile successivo il Filagato venne tratto fuori dalla sua prigione, rivestito sommariamente degli abiti e delle insegne papali e, sottoposto a un formale processo di destituzione voluto, forse, da Gregorio V, fu ritualmente spogliato dei paramenti sacerdotali. Poi – benché tutto questo, stando ad alcune fonti, potesse anche svolgersi immediatamente a ridosso della cattura – il mutilo prigioniero, per sommo di umiliazione, venne posto a cavalcioni di un asino con il capo rivolto all’indietro e con la coda in mano, rivestito di un ridicolo copricapo (forse un otre o un tubo di canapa o di lino del tipo di quelli utilizzati allora per le piccole condutture dell’acqua di scarico, e qui grottesca parodia della mitra indossata dai papi nelle solenni cerimonie di intronizzazione) e portato in processione infamante e derisoria (forse ispirata all’antico rituale romano della Cornomania) per quelle vie di Roma che l’avrebbero ricondotto per sempre nel monastero dove trascorse i suoi ultimi anni. Vi è più di una traccia successiva di segni palesi di rammarico e forse anche di pentimento personale di Ottone III per l’operato dei suoi uomini in quei frangenti. È nota, per esempio, la richiesta di perdono da lui più volte avanzata a Nilo di Grottaferrata che, saputo dell’orribile supplizio riservato al Filagato, tra la fine di marzo e i primi di aprile 998 venne a Roma per intercedere a favore dell’antico discepolo e per chiedere al sovrano e a papa Gregorio V di consegnarglielo, cosa che entrambi rifiutarono offrendogli come contropartita il monastero romano di S. Anastasio alle Tre Fontane. Ma Nilo, pur accettando quell’offerta, dopo aver saputo del trattamento infamante riservato al Filagato a seguito della rituale destituzione, pronunciò una sinistra profezia di morte contro i due cugini. È però ben difficile, come più volte si è stati tentati di fare, non attribuire al sovrano una qualche responsabilità oggettiva se non diretta per quegli orribili eventi del febbraio 998. Più delicata, anche se in apparenza più ovvia, sembra invece una valutazione obiettiva e serena delle pur innegabili responsabilità di Gregorio V, uomo di cui le fonti coeve evidenziano la fermezza, l’inflessibilità e la durezza nell’operato, e che, nella fattispecie, tendono a dare come dovuta e scontata, quando non meritoria e opportuna, l’azione repressiva di ritorsione ai danni del Filagato. L’unica esecrazione del suo operato in quei frangenti proviene da una fonte, come il Bios agiografico di s. Nilo, che è evidentemente troppo interessata a rimarcarne la spietatezza.
Nonostante sia stata più volte richiamata una notizia contenuta all’anno 1013 negli Annales necrologici Fuldenses, secondo cui “Graecus Iohannes viam universae carnis ingressus est” (p. 210), è poco verosimile che quell’affermazione si riferisse al Filagato, che dovette più probabilmente chiudere i suoi giorni nell’ignoto monastero romano della sua prigionia, un 26 di agosto – come attesta il catalogo-necrologio degli abati di Nonantola, agli inizi dell’XI secolo – da collocare, forse, in quell’anno 1001 (sotto Silvestro II) a cui sembra in ogni caso da riferirsi l’ultima menzione relativa a lui ancor vivente a Roma. È ignoto anche il luogo della sepoltura di questo tanto avventato, quanto sfortunato figlio di Calabria, annientato dalla deleteria combinazione di umana debolezza, estrinsecantesi sovente nel germe dell’ambizione, e torbidi interessi politici, i medesimi che per tanti secoli hanno reso ibrido e poco salubre il cammino di Santa Romana Chiesa. Fortunatamente i tempi cambiano, e, a volte sorprendentemente, cambia anche la Chiesa; quel cambiamento verso cui Papa Francesco sta cercando di guidare un’entità eclesistica sclerotizzata e resistente, soprattutto nei livelli curiali romani, all’aria nuova preconizzata dal pontefice argentino. Quell’aria nuova a cui Papa Francesco vuole aprire non solo la Chiesa come istituzione, ma soprattuto la Chiesa come popolo di Dio, come società; quella società a cui Francesco parla, esortandola ad amndare oltre le sue debolezze e a depurarsi da fenomeni come corruzione, illegalità e criminalità; quella società a cui Bergoglio ha parlato anche durante la storica visita pastorale a Sibari e a Cassano allo Jonio del giugno 2014, quando, pochi mesi dopo il barbaro assassinio del piccolo Cocò da parte di affiliati alla ‘ndrangheta, ha pronunciato la scomunica contro i mafiosi, fatto senza precedenti nella Storia della Chiesa Cattolica, che ha avuto come pulpito una terra brutalizzata da questo fenomeno e desiderosa, nella stragrande maggioranza della sua gente, di ricominciare a respirare aria sana; quell’aria sana che, per cultura, tradizione e storia, anche per quella che queste pagine hanno tratteggiato, naturalmente le si confà e che Papa Francesco a inteso rimarcare con quella epocale presa di posizione esternata al mondo nella piana di Sibari.
Cambiamenti, o, almeno, tentativi di cambiamento, parole e azioni in cui intravedere una speranza e attraverso i quali ritrovare fiducia in merito alla somma funzione della millenaria istituzione ecclesistica, che nella Calabria ha sempre trovato energie vigorose, manifestatesi non solo nella individuale rilevanza dei suoi Papi, ma soprattutto in tante personalità, anche laiche, che, in strada, così come nelle Chiese, nelle nunziature, nei palazzi del potere hanno saputo onorare al meglio il ruolo, il Servizio della Chiesa verso il mondo, verso “i poveri, i più piccoli”. Quel Servizio che, come esplicitato da Papa Francesco è l’unico programma, l’unico strumento di governo di un Pontefice, unico obiettivo di ogni cristiano, unica essenza della Chiesa universale, di cui la Calabria continuerà ad essere un tassello spiritualmente vivido e umanamente vitale. Sulle orme di Pietro… sull’esempio, aulicamente semplice e fresco, di Francesco.
BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA
– Enciclopedia dei Papi Treccani
Santi, beati e testimoni – Enciclopedia dei Santi. SantieBeati.it ;
– Martirologio della Pontificia Accademia Cultorum Martyrum ;
– Storia e Folklore Calabrese di Domenico Caruso.